Lo Yemen, test della nuova politica saudita
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Orient XXI, 13 aprile 2015 (trad. ossin)
Affermazione del re Salman e rivalità tra principi
Lo Yemen, test della nuova politica saudita
Fatiha Dazi-Héni
Per quanto poco versato nella diplomazia proattiva, più a proprio agio nei corridoi della scena regionale, il regno d’Arabia Saudita assume oramai il ruolo del protagonista arabo più influente in Medio Oriente. Questa nuova tendenza si è imposta al regno sulla scia delle “primavere arabe”. Lo Yemen costituisce un test decisivo di questa politica
Quando la sollevazione popolare in Egitto ha provocato la caduta del presidente Hosni Mubarak, l’11 febbraio 2011, e poi i Fratelli Mussulmani hanno preso il potere e una contestazione popolare si è fatta strada nel piccolo regno del Bahrein, facendo temere la caduta della dinastia sunnita Al-Khalifa, il regno dell’Arabia Saudita ha deciso di agire per tentare di invertire la dinamica dei cambiamenti in corso in Medio Oriente (1). Gli avvenimenti di Siria e Yemen, che sono sfociati in situazioni di caos securitario e umanitario, hanno solamente amplificato questa nuova dinamica diplomatica.
E’ nel contesto della burrascosa fine del regno di un re Abdallah nonagenario e di una diplomazia statunitense meno interventista in Medio oriente, che si innesca la svolta saudita, accelerata dalla crescente influenza dell’Iran.
Posta di fronte al vento delle rivolte arabe, la diplomazia regionale del regno si scontra soprattutto con le profonde divergenze che separano Washington da Riyadh nella lettura degli avvenimenti. Mentre Washington le guarda benevolmente, vedendovi un’occasione di cambiamento e di apertura – ne è testimonianza il rapido voltafaccia nei confronti del presidente Hosni Mubarak, alleato da trent’anni – l’Arabia saudita, chiave di volta del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) (2), tenta di imporre una linea conservatrice, articolata intorno all’asse monarchico del CCG allargato alla Giordania e al Marocco. Tenta anche di rafforzare una cooperazione securitaria con Egitto e Giordania, oggi estesa ad un asse arabo-sunnita (nel conflitto yemenita).
La diffidenza è aumentata parallelamente alla moltiplicazione delle aperture di Washington verso Teheran, nel quadro del negoziato per giungere ad un accordo definitivo sul nucleare, e mostra una posizione prudente sulla Siria. Questo relativo ritiro statunitense dal Medio Oriente è stato il fattore scatenante di una inedita volontà del regno di prendere esso stesso nelle mani il proprio destino di sicurezza con i suoi vicini del CCG.
Diplomazia “disordinata”, su uno sfondo di crisi di leadership
Questa nuova diplomazia deve però affrontare molteplici difficoltà. Da una parte, il regno si è abituato al confort che gli veniva dalla garanzia di sicurezza senza limiti assicurata da Washington. D’altra parte, il disordine regionale provocato dalle rivolte è coinciso con una leadership saudita invecchiata, con due dei più importanti principi della dinastia Al-Saud morti, uno dopo l’altro, nel 2011 e nel 2012 (3), in una contesto di guerra di successione nella quale il re Abdallah ha tentato di favorire il suo clan. Diversamente dai componenti del clan Sudauri (4), il re Abdallah non aveva fratelli germani e ha dedicato la fine del suo regno a costruire una rete di alleanze in seno alla famiglia, per imporre il suo clan nei confronti dei rivali.
Il re Abdallah, attraverso il suo capo di gabinetto Khaled Al-Tuwaijri, lavora al consolidamento della posizione dei figli del re, soprattutto del principe Miteb, diventato ministro della Guardia Nazionale nel 2012 con l’attribuzione di un budget colossale. Il sovrano si poi impegna nello smantellamento del ministero della difesa, feudo dei Sudayri, subito dopo il decesso del principe Sultan. Nello stesso momento le crisi regionali si ingigantiscono: la Siria, l’Iraq e lo Yemen si trasformano in guerre civili; Egitto e Bahrein (in misura minore) sono colpiti da gravi crisi securitarie a causa di una situazione politica assai tesa e bipolarizzata.
In un simile contesto, la gestione delle crisi regionali sotto la leadership di Abdallah è confusa, al punto che il regno incontra difficoltà a imporsi perfino nel suo cortile di casa – il CCG – soprattutto nei confronti del Qatar, che tenta di imporre la propria lettura della “primavera araba” sostenendo i Fratelli Mussulmani nella regione contro la volontà saudita, provocando una crisi diplomatica inedita in seno al CCG tra il 5 marzo e il 16 novembre 2014 (5).
L’invito rivolto ai regni marocchino e giordano di unirsi al patto monarchico del CCG, lanciato nel maggio 2011 in occasione di una riunione straordinaria del CCG a Riyadh, viene immediatamente respinto dagli altri paesi membri. Seguono l’idea di trasformare il CCG in Unione del Golfo – respinto dall’Oman durante il Forum sulla sicurezza in Medio oriente a Manama nel dicembre 2013 – e poi la rinuncia al seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in qualità di membro non permanente, nell’ottobre 2013. Tutti segni di una leadership saudita incerta.
Uno clima analogo regna sul campo e detrmina una diplomazia disordinata, con l’emblematica rivalità saudito-qatarina sul dossier siriano che si rivela disastrosa. Perché, a dispetto del comune obiettivo di abbattere il regime di Bachar el Assad, Riyadh e Doha si scontrano sul sostegno da assicurare agli attori locali. Nel frattempo il governo di Assad si rafforza e l’Iran raccoglie i frutti della sua politica di influenza in Siria e in Iraq, imponendosi come l’altro protagonista che pesa già da subito nella futura sicurezza regionale.
L’altro elemento rilevante che spiega il fallimento iniziale di questa diplomazia proattiva è di aver posto sullo stesso piano, in una lista ufficiale pubblicata nel marzo 2014, tutte le minacce gravanti sulla regione. Classificare i Fratelli Mussulmani come una organizzazione terrorista sullo stesso piano di Hezbollah (già definita nel dicembre 2011 come organizzazione terrorista dal CCG), gli Houthi (ribelli zaiditi dello Yemen), Al Qaeda nella Penisola arabica (AQPA), rende inintelligibile la nuova diplomazia regionale saudita. Tanto più che la oramai Organizzazione dello Stato islamico (OIS) si impossessa di una parte del territorio iracheno e del territorio siriano nell’estate del 2014 e proclama la creazione di un “califfato”. Infine, ultimo colpo di grazia, i ribelli Houthi in Yemen conquistano la capitale Sanaa nel settembre 2014.
Questa perdita dello Stato yemenita, così come la lotta contro l’ISIS, costituiscono le priorità strategiche regionali del regno del re Salman. Gerarchizzando le minacce fin dal momento della sua incoronazione – contrariamente al suo predecessore – egli non considera più i Fratelli Mussulmani come una minaccia immediata, ma ritiene che il dossier yemenita e la minaccia jihadista siano altamente prioritarie perché hanno un impatto diretto sulla politica interna del regno.
La gestione del conflitto yemenita nelle mani dei nipoti di Al Saud
La prontezza delle decisioni assunte dal nuovo apparato securitario saudita sembra – già da solo – dimostrare la forte intesa realizzatasi tra il re Salman e l’altro uomo forte dello Stato, Mohamed Ben Nayef, nuovo vice-principe ereditario, oltre che ministro dell’interno e presidente del Consiglio degli affari politici e della sicurezza – settore nel quale non deve più dimostrare la propria sperimentata competenza. Il fatto che i due uomini forti del governo Al Saud siano entrambi originari del clan Sudayri rafforza la loro vicinanza. Tuttavia Mohamed Ben Salman (di 34 anni), spinto dal padre all’assunzione di immense funzioni sovrane (ministero della difesa, capo del gabinetto reale e presidente del nuovo consiglio degli affari economici e dello sviluppo), nonostante la poca esperienza, sembra già volersi mettere in mostra nel conflitto in Yemen scatenato dall’iniziativa di suo padre.
La formazione della coalizione “Tempesta decisiva” (6), il 26 marzo 2015, per realizzare attacchi in Yemen con l’obiettivo di fermare la conquista del paese da parte dei ribelli Houthi (sciiti), accusati di essere appoggiati dall’Iran, spinge infatti Mohamed Ben Salman ad approfittare del sentimento federalista provocato da questa nuova guerra in Arabia saudita. A eccezione di una parte della comunità sciita della provincia orientale e del suo feudo Al-Awamiyya (7), dove sabato 4 aprile vi sono stati degli scontri tra un pugno di attivisti e le forze di polizia che avrebbero effettuato una severa repressione, la popolazione saudita è unita a favore dell’iniziativa presa dal re Salman di formare una coalizione, presentata come un baluardo contro l’espansionismo iraniano e i suoi alleati nella regione.
Tentando di presentarsi già da ora come il futuro rivale di suo cugino che, dal canto suo, ha già dimostrato la sua competenza nella lotta contro Al Qaeda negli anni 2003-2008, Mohamed Ben Salman ha usato tutta la sua influenza per convincere il padre ad impegnarsi in una ampia operazione terrestre in Yemen, contro il parere di Mohamed Ben Nayef e di tutti gli stati maggiori sauditi (a causa del fatto che il Pakistan non approva l’invio di truppe di terra e che l’Egitto è ugualmente assai ostile all’invio di truppe di terra in Yemen).
L’esito del conflitto in Yemen è vitale per il regno. Se Mohamed Ben Salman si fa forte del fatto che la mediatizzazione del suo attivismo ne accrescere la popolarità, Mohamed Ben Nayef è costretto ad assicurare il successo reale di questa operazione, pervenendo rapidamente ad una cessazione negoziata del conflitto.
L’avvio del regno del re Salman si sviluppa lungo la sfida regionale più seria che il regno abbia mai dovuto affrontare. Più che della sua credibilità come protagonista regionale influente, la capacità di trovare la strada di una uscita dal conflitto in Yemen mette in gioco la sua stessa sopravvivenza interna. Seppure sembra che la leadership sotto Salman sia più unita ed in grado di prendere decisioni rapide, la relazione tra Mohamed Ben Salman e Mohamed Ben Nayef costituisce fin d’ora il regolatore centrale degli equilibri di potere che si giocano tra i nipoti del fondatore del regno Abdel Aziz Ibn Saud. La gestione del conflitto in Yemen sarà determinante per il futuro dei due uomini.
Note:
1) Riyadh e Abou Dhabi intervengono a Manama, il 14 marzo 2011, sotto copertura della forza militare comune del Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) « Scudo della penisola », per aiutare la dinastia sunnita Al-Khalifa a reprimere la sollevazione popolare guidata da una contestazione sciita che chiedeva riforme democratiche. Questo intervento ha contribuito a fare del Bahrein il focolaio di un conflitto confessionale.
2) Il CCG, creato il 25 maggio 1981, raggruppa l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, Oman e il Qatar.
3) Il principe ereditario Sultan, che ha retto il ministero della difesa dal 1962 e che è succeduto al fratello Fahd alla testa del potente clan Sudayri quando quest’ultimo è morto nell’ottobre 2011; poi Nayef, diventato principe ereditario alla morte di Sultan, sopravvenuta nel giugno 2012.
4) Dal nome della loro madre Hassa Al-Sudayri che ha avuto sette figli, tra cui il re Fahd, il re Salman e i principi ereditari Sultan e Nayef.
5) Il 5 marzo 2014, a causa dei disaccordi sulla linea da adottare verso l’Egitto e i Fratelli Mussulmani, che il Qatar sostiene, Riyadh, Abu Dhabi e Manama richiamano i loro ambasciatori a Doha. Essi ritornano in sede dopo l’accordo di Riyadh del 16 novembre 2014, che conferma la riconciliazione dei quattro Stati e consente al Qatar di assumere la presidenza a rotazione del CCG dal dicembre 2014 alla fine del 2015.
6) Questa coalizione comprende 9 Stati arabi: cinque paesi membri del CCG (tranne l’Oman) più l’Egitto, la Giordania, il Sudan e il Marocco. E’ inoltre forte dell’appoggio diplomatico formale del Pakistan e della Turchia.
7) Città natale di Cheikh Nimr Baqer Al-Nimr, secessionista, attivista sciita radicale arrestato nel 2011 per avere guidato disordini nella città e incoraggiato manifestazioni contro il regime dopo l’intervento saudita a Manama con lo “Scudo della Penisola”. E’ stato poi processato e condannato a morte.