Bahrein, la “primavera araba” dimenticata
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Algérie patriottique, 7 dicembre 2014 (trad.ossin)
Bahrein, la “primavera araba” dimenticata
Capitaine Martin
Tre anni fa, il mondo si confrontava con la sfida chiamata “primavera araba”. Nessuno all’epoca sembrava davvero prestare attenzione a quanto accadeva in Bahrein. Ciononostante, proprio come al Cairo o a Tunisi, migliaia di persone sono scese nelle strade di Manama, capitale di un regno di appena 750 kmq, per reclamare più democrazia e diritti. Ma, diversamente da quanto accaduto in altri paesi arabi sui quali si è abbattuta l’ondata di protesta, la situazione in Bahrein è stata fatta passare sotto silenzio.
Nessuno, ad eccezione di rare organizzazioni non governative straniere, ha avuto il coraggio e la volontà di denunciare quanto è accaduto. Oggi la sollevazione del Bahrein ha finito con l’essere dimenticata non solo dal mondo occidentale, ma anche da quello arabo. Questo micro-regno, de jure monarchia costituzionale e de facto quasi colonia del suo potente vicino saudita, è la prova dei due pesi e delle due misure dell’impatto mediatico riservato ai moti popolari.
Benché l’islam sciita sia la religione di Stato in Bahrein, è la famiglia sunnita Al-Khalifa, regnante dal 1783, a guidare sovranamente il paese, fin dall’indipendenza ottenuta nel 1971. Questo fatto potrebbe bastare a spiegare perché l’attuale re sia rimasto sordo alle rivendicazioni popolari dei suoi sudditi. Ma le ragioni del disinteresse del mondo libero per la causa dei Bahreiniti sono altrimenti più complesse.
Beninteso, il fattore religioso occupa un posto preponderante, soprattutto perché le manifestazioni del 2011 hanno avuto principalmente per protagonista l’opposizione sciita, discriminata per molti versi dal governo e dalla burocrazia. La dinastia regnante ha anche chiesto, e ottenuto, l’aiuto dei suoi alleati militari del Golfo, che sono subito intervenuti.
I cittadini non si sono piegati, e così il paese è stato scosso da una recrudescenza di manifestazioni, nonostante le elezioni del 22 novembre 2014, che hanno solo reso manifesto il fossato che separa i sunniti, minoritari ma detentori di tutto il potere, dagli sciiti, maggioritari ma poco rappresentati politicamente. Secondo Nabil Rajab, oppositore politico più volte arrestato, la lotta cesserà solo quando giungerà alla fine. “Il 14 febbraio 2011 (inizio delle manifestazioni), abbiamo preso un biglietto di sola andata per la democrazia”, proclama, precisando che ogni settimana almeno 300.000 scendono ancora in piazza.
No, la Rivoluzione non è morta, come potrebbe far credere la scarsa risonanza che le è stata data. Infatti, mentre la comunità internazionale e i media guardavano con benevolenza le sollevazioni salafiste in Maghreb e in Siria, è stato un silenzio glaciale ad accogliere la rivolta dei bahreiniti e la sua repressione da parte del governo.
Più di tre anni dopo la sollevazione in Bahrein, e al di là degli annunci ufficiali del varo di riforme, le autorità continuano a reprimere ogni forma di opposizione e di espressione divergente. Si calcola che più di 80 manifestanti siano stati fino ad oggi uccisi e che il numero di arresti abbia toccato i 3.000. Per un piccolo paese di 1,24 milioni di abitanti, si tratta di un numero enorme.
Di recente, Nabil Rajab è stato convocato e poi arrestato, per dare spiegazioni di alcuni “twitter offensivi”. In uno di essi, egli aveva affermato che alcuni ex membri dei Servizi di sicurezza del Bahrein erano andati a combattere in Siria, nei ranghi dello Stato islamico. E’ sbalorditivo constatare come l’arresto del dissidente non sia stato rilanciato dai media occidentali, ivi compresi i grandi canali audiovisivi, come segno di sostegno alla libertà di espressione, e che l’attenzione dei giornalisti si sia focalizzata sugli attacchi aerei e sugli apprendisti “jihadisti” in partenza per l’Iraq e per la Siria. Da parte poi dei governi e delle istituzioni internazionali, è stato ancora una volta il più grande silenzio. Nessun comunicato sembra essere stato pubblicato.
Perché i governi europei non forniscono un sostegno politico a Nabil Rajab, un militante che ha sollevato una questione importante circa l’origine e la crescita dello Stato Islamico? Perché non vi è un sostegno diretto nei confronti di queste voci dissidenti che vengono arrestate in paesi che pretendono di lottare contro lo Stato Islamico, ma che come contropartita ottengono di poter arrestare tutti i dissidenti? A questa domanda Nabil Rajab risponde senza mezzi termini. Secondo lui, “la ragione per la quale i media non parlano di lui, sta nel fatto che essi appartengono a famiglie della regione o a personalità occidentali, che vogliono mantenere buone relazioni con le dittature con cui fanno affari nel campo del petrolio, delle armi, ecc”. E si dice “assai rattristato per il modo in cui i governi li hanno abbandonati, ignorano la loro lotta per la democrazia, mentre continuano a parlare di Ucraina, Iran e Siria”. “Perché di loro e non di noi?” si chiede Nabil Rajab, dicendo che pure “hanno le stesse rivendicazioni” e condividono “valori comuni con l’Europa, in particolare con la Francia Umanista”.
Malauguratamente per il dissidente bahreinita, la storia ufficiale del nostro paese è decisamente ingannevole.