Jeune Afrique 5/5/2008


Dove vuole arrivare Paul Biya?


di François Soudan


Già quattro ex ministri e diversi dirigenti di imprese pubbliche in prigione. L’operazione “Sparviero” continua a ripulire le scuderie del regime. Non senza qualche danno collaterale.
Attentissimo, ovviamente – e come! – ma appartato.  Come una sfinge. E’ così che Paul Biya ha seguito dalla sua residenza di campagna di Mvomekaa le ultime vicende politico-giudiziarie dell’operazione anticorruzione “Sparviero”, che fa tremare i baroni e fremere di gioia l’opinione pubblica. Già quattro ex ministri in prigione, più tre dirigenti di società pubbliche e una pulizia al Karcher (nota marca di aspirapolvere, ndt) delle scuderie del regime, con gli applausi dei camerunensi che non si saziano mai dello spettacolo. Ultima vittima in ordine di tempo: Jean-Marie Atangana Mebara, 54 anni, ex segretario generale della presidenza e ministro degli affari esteri fino al settembre 2007. Privato del passaporto dal 18 marzo e praticamente posto agli arresti domiciliari nel quartiere di Bastos, a Yaoundé, il figlio di Mbankomo, che fu alla fine degli anni 1990 un brillante Ministro dell’Insegnamento superiore, ha passato tutta la giornata del 25 aprile nei locali della polizia giudiziaria sottoposto ad un ennesimo interrogatorio. “Questa è la volta buona”, dicevano i curiosi raggruppati all’esterno. Mebara è tuttavia uscito libero. Ma fino a quando? Una pausa, il tempo di un week-end, e la macchina ricomincia a triturare.

Il gioco della bambole russe
Lunedì 28 aprile, nella mattinata, un cordone di poliziotti accerchia la sede della Commercial Bank of Cameroon, a Douala. All’interno scoppia il panico. Il capo della polizia del Littoral (una provincia del Camerun, ndt) è venuto per notificare al patron, Yves Michel Fotso, 48 anni, una convocazione della Polizia Giudiziaria per due giorni dopo. Fotso, che era in pieno consiglio di amministrazione, lo fa attendere. I poliziotti sono nervosi. Infine l’uomo d’affari, uno dei più fortunati – e quindi dei più invidiati – del Camerun scende e firma la ricevuta. D’altronde non aveva scelta. Mercoledì 30 aprile il figlio di Victor Fotso, il baobab di Bandjoun, fa ingresso a sua volta nell’ufficio che ospita la sottodirezione degli affari economici della polizia giudiziaria, nel quartiere Elig Essono a Yaoundé. Anche in questo caso le voci sono feroci e categoriche: “Ne uscirà in manette”. Di fatto, dopo quattro ore di audizione, l’ex direttore generale della Camair ed oramai residente a Singapore riparte con la sua auto, direzione Douala. Gli inquirenti l’hanno pregato di tenersi a loro disposizione. Fotso sa che non hanno ancora finito con lui.
Lo scandalo nel quale questi due personaggi sono coinvolti porta un nome di uccello, che è anche quello di un poema di Charles Baudelaire dalla frase premonitrice: “Le sue ali giganti gli impediscono di volare”.  The Albatross: questo in effetti è il nome del Boeing 767 VIP noleggiato alla fine del 2003 per servire da aereo presidenziale al capo dello Stato. Un apparecchio completamente rimesso a nuovo – almeno sulla carta – per quasi 2 miliardi di Franchi CFA (oltre 3 milioni di euro, ndt), malgrado l’opinione contraria del FMI, e che sarà utilizzato da Paul Biya una sola volta. Vecchio di 18 anni, in servizio successivamente in Brasile, Cile e in Madagascar (dove l’utilizzava l’ex presidente Didier Ratsiraka), l’Albatros stava per terminare la sua esistenza in un parking non lontano da Los Angeles, quando venne proposto alla presidenza camerunense da una misteriosa società di trading aereo con sede a Londra e registrata alle isole Caiman: APM (Aircraft Portfolio Management).
Il 25 aprile 2004 è un Paul Biya fiducioso, accompagnato da sua moglie e dai giovani figli, che si imbarca sul suo nuovo aereo con destinazione Parigi, dove deve partecipare ad un summit. Il viaggio diventa un incubo: blocco del carrello di atterraggio, perdita idraulica. Il pilota camerunense pensa anche di fare marcia indietro. Arrivato a destinazione, Biya decide di non usare più l’Albatros. Si è giocato con la sua vita e con quella della sua famiglia, pensa. E non ha certamente torto. Qualche giorno più tardi, quando viene inviato negli Stati Uniti per una revisione, l’aereo ha una nuova avaria e deve atterrare d’urgenza a Douala.
Cosa è successo? Chi si nasconde dietro APM? In quali condizioni sono state effettuate locazione e revisione dell’Albatros? Ci sono state sovrafatturazioni, provvigioni, distrazioni di fondi?
Segretario generale della presidenza all’epoca dei fatti, incaricato di dirigere la commissione ad hoc istituita per concludere l’affare, Atangana Mebara è nel mirino degli inquirenti. Ma non è il solo. Yves Michel Fotso, patron della Carmair fino al novembre 2003, faceva anche lui parte di questa commissione. Come anche l’ex ambasciatore negli Stati Uniti Jérome Mendouga, ed un certo Ephraim Inoni, allora segretario generale aggiunto della presidenza. Anche il nome dell’attuale primo ministro figurava in tutte le lettere – abusivamente, riferiscono alcune fonti, che sostengono ch’esso sia stato utilizzato a sua insaputa – dirette agli amministratori dell’APM.
Resta una domanda di fondo: perché l’Albatros riappare nei cieli del Camerun più di quattro anni dopo i fatti? Per tre ragioni. La prima attiene alla stessa natura dell’operazione Sparviero.  Quelli che la conducono – il ministro della giustizia Amadou Ali ed il direttore della Sicurezza, Edgar Alain Mebe Ngo’o – si muovono in un ambito assai ampio, ciò che consente loro di affrontare le vicende una dopo l’altra, come un gomitolo o un gioco di bambole russe. Si riaprono dunque gli armadi. Così Yves Michel Fotso, benché completamente scagionato nel 2006 dall’ispezione di controllo superiore dello Stato, si attende adesso di essere nuovamente interrogato sulla gestione della Carmair. Così come l’inchiesta sull’Albatros potrebbe portare Jean-Marie Atangana Mebara a rispondere di altre accuse.
Seconda ragione. I poliziotti ed i magistrati di Sparviero sanno di essere coperti – e perfino incoraggiati – da un capo supremo che, sostenuto dai finanziatori, mantiene i suoi impegni in questo settore. “Siamo determinati ad andare avanti – dichiarava Paul Biya a fine ottobre 2007 a proposito della lotta contro la corruzione -  e questa non è polvere negli occhi”. All’epoca i Camerunensi erano scettici. Oggi lo sono molto meno.
Terza ragione infine: la revisione della Costituzione, votata il 10 aprile dal Parlamento e che consente a Biya una nuova candidatura alle presidenziali del 2011, risulta incontestabilmente meno indigesta agli occhi dell’opinione pubblica contraria, se si accompagna a gesti forti contro l’impunità. Soprattutto se dei “papaveri” vanno a raggiungere in prigione i giovani delle manifestazioni contro il carovita, in carcere dalla fine di febbraio.
Coincidendo necessità, sincerità ed abilità politiche, non si vede dunque per quale ragione quelli che fanno pulizia con l’operazione Sparviero dovrebbero arrestarsi nel corso del cammino. A Yaoundé, ministri e baroni si chiudono in una specie di remake locale del film “Peur sur la ville”, mentre i senza potere  pensano di assistere alla versione francese di “Ripoux” (popolare film francese su un poliziotto corrotto, ndt). E tuttavia attenzione. In un paese dove ogni successo sociale (e finanziario) è considerato sospetto e dove una convocazione da parte della polizia è assimilata ad una sentenza di condanna, quel pilastro della democrazia che è la presunzione di innocenza è già da ora la prima vittima della caccia popolare.





Jeune Afrique 15.12.2009


Reportage a Kondengui, la prigione centrale di Yaoundé

di Georges Dougueli


La prigione centrale di Yaoundé ha di particolare che vi sono detenuti dei prigionieri assolutamente speciali. Cinque ex-ministri, sette ex-direttori di imprese pubbliche, alti responsabili dell’amministrazione camerunense… Incontro con questi VIP dietro le sbarre


Questo 18 novembre non è giorno di visite a Kondengui. All’ingresso, dei guardiani disincantati fanno però delle eccezioni. Per dei magistrati, degli avvocati e qualche visitatore reso speciale dal pagamento di qualche mazzetta, che è sempre bene accolta. “Niente telefonini né macchine fotografiche”, sbraita un guardiano in uniforme verde oliva per fare scena. Ma nessuno viene perquisito.
Entrando, si avverte prima di tutto un rumore, che diventa un casino assordante. Quello di 4000 detenuti stipati in uno stabilimento penitenziario che ne può contenere 1000. Poi si sente l’odore. La nauseante miscela di traspirazione, sporcizia e fogne intasate prende alla gola. Poi si viene colpiti dall’atmosfera irreale e vagamente inquietante del cortile. Quanta gente si affolla in questo spazio grande appena un quarto di un campo di calcio? Una folla sbrindellata, e centinaia di sguardi che ti scrutano e che cerchi di evitare… “Grandi” criminali e piccoli balordi, minori e adulti, imputati in attesa di giudizio e condannati all’ergastolo sono là, tutti insieme in una promiscuità impressionante. Un universo impietoso che è anche un luogo di grande sofferenza. Non passa notte senza uno stupro, stupro o aggressione fisica.
Per raggiungere la biblioteca, bisogna attraversare il cortile sgomitando, con la paura che ti prende allo stomaco e i muscoli tesi. Dopo un percorso breve ma che sembra interminabile, siamo finalmente introdotti in un locale pulito e fresco, isolato dal baccano. La biblioteca è ancora in costruzione, coi suoi scaffali vuoti a metà, coi suoi tavoli di legno grezzo. In un angolo, un computer.
E’ qui, lontano dalla violenza e dalla folla, che gli ex dignitari del regime, caduti nella rete dell’operazione anticorruzione Sparviero, passano la maggior parte della loro giornata. Questi ex alti funzionari si impegnano a mantenere cordialità e convenienze. Si danno del “Lei”, si chiamano tra loro “Signor ministro di Stato”, “Signor Direttore”. Questo li distingue da tutti gli altri. Un modo di mantenere la dignità nell’atmosfera  di sopraffazione delle guardie e degli altri detenuti.
Per due volte, durante l’intervista, un importuno fa irruzione nella stanza. Ogni volta tutti tacciono, restando sul chi vive. Nessuno ha dimenticato l’aggressione del 2005 contro Pierre Désiré Engo, ex direttore della Cassa nazionale della Previdenza sociale (CNPS), e Dieudonné Angoula, ex direttore delle Telecomunicazioni. I due vennero rapinati nella loro cella del quartiere speciale 11 da codetenuti armati di coltelli e punteruoli. Quando l’importuno se ne va, l’atmosfera si distende, ma resta la diffidenza.
Seduto ad un tavolo al centro della stanza, Urbain Olanguena Awono, 54 anni, tiene un libro in mano: Les Mensonges de l’Histoire, di Pierre Miquel (Perrin) pubblicato nel 2003. L’ex ministro della Sanità ha il sorriso sulle labbra ma non ha dimenticato niente del suo arresto umiliante organizzato il 31 marzo 2008 dalla polizia, davanti alla telecamere del canale nazionale. “Tutto questo mi ha aiutato a conoscere meglio il mio paese”, commenta con filosofia.
 
Gioco al massacro
Il 1 ottobre scorso, il giudice istruttore ha pronunciato un non luogo a procedere parziale sulla vicenda. Da 8 miliardi di F CFA (circa 12 milioni di euro) dell’inizio, l’ammontare della distrazione di risorse pubbliche che gli è contestata si è ridotto a 414 milioni. Forte del sostegno del Fondo mondiale di lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, del quale è accusato di aver stornato i finanziamenti, l’ex ministro contrattacca. Secondo lui questo processo è stato “strumentalizzato” dall’istituzione giudiziaria, nella prospettiva della successione al presidente Paul Biya. “Hanno inventato un gruppo di cospiratori, il G11, vi hanno coinvolto qualcuno di noi, poi hanno mentito al capo dello Stato perché ratificasse la nostra eliminazione – dice – E’ un vero gioco al massacro!”

Messa e tennis
Nonostante i suoi problemi di salute, l’ex ministro di Stato, segretario generale della presidenza, si difende con tenacia. Indagato nella vicenda Albatros, relativa ad un contratto di locazione di un Boeing 767 per conto della presidenza, reclama anche lui la sua innocenza. A fine novembre, quando il giudice istruttore gli tardivamente contestato un sesto capo di imputazione, i suoi avvocati sono usciti dall’aula lamentando una “violazione del diritto di difesa”.
Attendendo l’apertura del dibattimento, si mantiene in forma giocando a tennis con l’ex ministro dell’economia e delle finanze, silurato nel 2007, Polycarpe Abah Abah, Quest’ultimo officia, peraltro, tutte le domeniche alla parrocchia protestante della prigione. Jean-Marie Atangana frequenta invece il consiglio parrocchiale cattolico della prigione, presieduto da Pierre Désiré Engo. Non è certo però che la preghiera basti a placare i tormenti di questi uomini infuriati.

Intanto al lago…
Il Lago è una caserma posta sulla riva nord del lago municipale, è la sede della temutissima gendarmeria camerunense. Al contrario della residenza del Primo Ministro, dei ministeri e del complesso alberghiero, che sono adiacenti alla distesa d’acqua diventata una cloaca maleodorante, esso è protetto da alte mura di recinzione, nonostante la bella vista panoramica. Da dodici anni, per una ragione misteriosa, il Lago è diventato il luogo di detenzione di due dei più celebri prigionieri del Camerun. Il primo è Titus Edzoa, 64 anni. Questo professore in medicina, che fu medico personale e consigliere speciale del presidente Paul Biya, membro del governo con l’incarico di ministro dell’insegnamento superiore, diventato numero 2 del regime in quanto segretario generale della presidenza, ha finito col cadere in disgrazia. Processato e condannato a 15 anni di prigione ferma per “tentativo di distrazione di fondi pubblici”, sconta la sua pena in un sotterraneo  costruito proprio sotto l’ufficio del segretario di Stato alla Difesa (SED) incaricato della gendarmeria.
Edzoa condivide la sua vita di recluso troglodita con colui del quale siamo invitati: Thierry Michel Atangana Abega, 45 anni,  da dodici in prigione. Francese di origine camerunense, ex rappresentante in Cameroun della Lyonnaise des eaux, uomo d’affari diventato consigliere di Edzoa, processato per complicità e condannato alla stessa pena nello stesso processo, abita nella cella vicina.
Ogni visitatore è sottoposto ad un controllo draconiano all’ingresso della caserma. Deve poi trovare la strada nel dedalo degli edifici color ocra del vasto campo militare. Dietro l’ufficio del segretario di Stato si apre l’unica porta d’ingresso alle celle. La notte è scesa sulla città. La porta di metallo si apre su di un buio corridoio che dà accesso a due altre porte sulla sinistra. Un rumore di stivali risuona sulla volta in calcestruzzo al di sopra delle teste, proveniente dall’ufficio ministeriale.  Dalla porta sul fondo filtra della luce e il suono di una radiolina: il “professore” non ha atteso l’ora regolamentare delle 20 per rientrare in cella. Non era avvisato della nostra visita. Ma non sarà certo Thierry Michel Atangana che se ne lamenterà. I due uomini non si parlano più “da otto anni”, ci confida in nostro ospite mentre ci apre la porta del suo “palazzo”.
Un bugigattolo di cemento 1,5 metri per 3. Non c’è televisore, Debolmente illuminato ed aerato da una feritoia  aperta nel soffitto. Un piccolo letto di legno occupa più della metà dello spazio. Non resta spazio che per uno scaffale che serve sia da portaoggetti che da biblioteca. E’ anche il solo mobile dove il detenuto può appoggiare il pasto che gli viene cucinato da una religiosa cattolica dopo il suo divorzio di qualche anno fa.  E’ impossibile evitare l’angoletto con un gabinetto turco, molto pulito, sistemato giusto dietro la porta. Impossibile fotografare la cella. Le guardie ci sorvegliano. Sono dieci soldati d’élite, di cui la metà appartiene al famoso raggruppamento polivalente d’intervento della gendarmeria (GPIC), che si è fatto conoscere nella lotta contro i “tagliatori di strada” nel nord del paese.
“Durante il primo anno della nostra detenzione, avevamo diritto ad una sola ora di passeggiata al giorno”, ricorda Atangana. Su richiesta del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), i due uomini sono stati poi autorizzati a uscire dalle proprie celle dalle 9 alle 20. Felicissimo di poter diserbare il retro giardino su cui si stende la sua “terrazza”, l’ex consigliere tenta così di distruggere i nidi di zanzare e di sloggiare i serpenti che infestano il posto.
Quando non lotta contro le erbe rigogliose, Atangana si va a distendere sotto la veranda. Lontano dal posto dove si riposa Edzoa. In litigio, i due uomini non si frequentano. Il giovane uomo d’affari rimprovera al chirurgo di averlo coinvolto nella sua caduta. In effetti, dopo le sue dimissioni, Edzoa annunciò la sua candidatura alle elezioni presidenziali dell’ottobre 1997 e nominò Thierry Michel Atangana Abega direttore della campagna elettorale,senza consultarlo.

Noia mortale
In seguito il giovane ha tentato vanamente si sottrarsi a questo vespaio. Alla fin del 2008, colpo di tuono: un giudice istruttore ha dichiarato un non luogo a procedere in un processo identico a quello che è sfociato nella sua condanna. Imbarazzata, la Procura ha subito fatto appello. I due uomini rischiano di beccarsi, all’esito di un nuovo processo fissato per il 20 gennaio 2010, una nuova condanna a 15 anni di reclusione.
Nell’attesa, le visite dei parenti sono il solo mezzo per combattere la noia. Anche se alcuni vengono anche per mendicare. “Io pago delle fatture, dei canoni d’affitto”. Una banconota per guadagnarsi la benevolenza di una guardia, ma anche per non farsi dimenticare dai parenti. Ma non tutto si può comprare: “Non ho ottenuto l’autorizzazione per assistere alle esequie di mia madre, morta nel luglio 2002, né a quelle di mia sorella morta nel 2006”, si lamenta. Da sette anni non può più ricevere le visite consolari. Da qualche mese il console di Francia ne ha fatto richiesta. Rifiuto categorico del capo della gendarmeria. Quattro segretari generali si sono succeduti dall’incarcerazione di Atangana nel 1997. Alcuni hanno concesso qualche ammorbidimento delle condizioni di detenzione dei prigionieri. Altri le hanno inasprite. Niente è acquisito. Tutto può essere rimesso in questione.


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