ProfileCrisi siriana, novembre 2016 - Le zone nord della Siria e dell’Iraq costituiscono un nuovo fronte per il presidente Erdogan, che ha lanciato delle operazioni di influenza destinate a riposizionare la Turchia al centro del gioco regionale (nella foto, il presidente Erdogan)

 

 
Turchia/Iraq/Siria: Il presidente Erdogan si scatena
Alain Rodier
 
Le zone nord della Siria e dell’Iraq costituiscono un nuovo fronte per il presidente Erdogan, che ha lanciato delle operazioni di influenza destinate a riposizionare la Turchia al centro del gioco regionale. Il 2 ottobre 2016, il Parlamento di Ankara ha autorizzato l’esercito turco a proseguire il suo intervento in Iraq e in Siria, e la cosa irrita sempre di più Bagdad e Damasco che denunciano la violazione del loro territorio. Di violazione si tratta certamente per quanto riguarda la Siria – dove il governo di Damasco, che continua ad essere ufficialmente rappresentato all’ONU, non ha ovviamente chiesto niente -, la questione è più complessa per quanto riguarda l’Iraq, dal momento che l’aiuto di Ankara è stato chiesto dal governo regionale del Kurdistan presieduto da Massud Barzani, per quanto in disaccordo completo con Bagdad !
 
Il presidente Erdogan
 
Le operazioni in Siria
 
Il 22 ottobre, Ankara ha annunciato di aver lanciato per la seconda volta in pochi giorni degli attacchi contro 70 posizioni delle Unità di protezione del popolo curdo (YPG), il braccio armato del PYD, il fratello siriano del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Il problema è che le YPG costituiscono il nocciolo duro delle Forze Democratiche Siriane (FDS), una coalizione che raggruppa anche qualche formazione araba e cristiana (molto minoritarie). Si dà il caso che le FDS siano appoggiate dalla coalizione internazionale anti-Daesh guidata dagli Stati Uniti. Gli attacchi della Turchia sono dunque un vero affronto per Washington, tanto più che questo annuncio è stato fatto proprio mentre Ashton Carter, il segretario alla Difesa USA, effettuava una visita di lavoro ad Ankara. Come se non bastasse, Erdogan ha anche affermato che la Turchia deve partecipare alla riconquista di Mosul (Iraq), cosa a cui Bagdad è fermamente contraria.
 
Ad agosto la Turchia, utilizzando gruppi ribelli fedeli [1] ha lanciato l’operazione Scudo dell’Eufrate, proprio mentre le FDS riprendevano la città di Manbij a Daesh. Da notare che l’operazione delle FDS aveva avuto l’appoggio dell’aviazione della coalizione a guida USA. La Turchia e alcuni gruppi ribelli hanno rapidamente assunto il controllo di una zona che si estende da est a ovest, da Jarablus, sull’Eufrate, fino al corridoio di Azaz. La località simbolica (per Daesh) di Dabiq è caduta senza colpo ferire. Ora l’obiettivo dichiarato di Ankara è la città di Al-Bab, posta a nord-est di Aleppo. Si tratta di un importante crocevia strategico tenuto da Daesh. Questa località, però, interessa anche le YPG e anche Damasco ! In seguito, il presidente Erdogan vorrebbe procedere verso Manbij – città attualmente controllata dalle YPG -, poi se gli Statunitensi si impegneranno direttamente, verso Raqqa. La vicenda rischia di essere complicatissima, dal punto di vista militare, politico e diplomatico!
 
In Siria, Ankara persegue due obiettivi: mettere in sicurezza la sua frontiera cacciando Daesh – e la cosa è in corso di realizzazione – e impedire alle YPG di collegare i cantoni di Efrin, di Kobane e di Djazira, per riunificare il «Rojava», una regione autonoma curda nel nord della Siria. L'operazione Scudo dell’Eufrate non si sarebbe potuta realizzare senza l’assenso di Mosca che, in cambio, sembra avere ottenuto una certa neutralità di Ankara per quanto riguarda la battaglia di Aleppo. D'altronde una parte dei ribelli siriani hanno abbandonato la zona di Aleppo per unirsi all’esercito turco.
 
Da quando le YPG sono oggetto degli attacchi della Turchia, diventa difficile per le FDS di lanciarsi alla riconquista di Raqqa, la «capitale» dello «Stato Islamico». Eppure Washington – seguita da Londra e più timidamente da Parigi – proclama alto e forte che la liberazione di Raqqa seguirà quella di Mosul. Tuttavia, in mancanza delle FDS, non si riesce a comprendere chi potrebbe fornire i combattenti di terra per realizzare questa conquista ad alto rischio. Resta ovviamente l’opzione turca e dei ribelli che la Turchia controlla, ma resta anche aperto il problema della legalità internazionale di una simile operazione priva dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a meno di non voler scendere a patti con Mosca. Ma non sembra questa l’intenzione attuale degli Occidentali.
 
Le operazioni in Iraq
 
La Turchia è presente militarmente in Iraq da anni. Controlla l’aeroporto di Barmeni, vicino a Batufa, in prossimità della sua frontiera. Successivamente, su richiesta di Massud Barzani, si è installata nella base Zilkan, posta a 15 chilometri a nord-est di Mosul, vicino alla città di Bachiqa. Qui addestra la milizia assira «Le Unità di protezione della piana di Ninive», forte di un 2000 uomini. E’ integrata nelle Forze di mobilitazione nazionale (FMN, o Hashd al-Watani), un gruppo di milizie sunnite, ma anche turcomanne, assire, caldee e cristiane siriache (come la milizia assira Dwekh Nawsha). Le FMN conterebbero poco più di 10.000 combattenti, comandati dall’ex governatore di Mosul, Atheel Nujaifi, anch’esso accusato di tradimento da Bagdad. Appartenente ad una grande famiglia di Mosul, ha abbandonato la città nel giugno 2014, quando Daesh ne ha preso il controllo.
 
L'insistenza con cui Ankara chiede di partecipare alla riconquista di Mosul ha senza dubbio motivazioni storiche. Questa città era infatti uno dei gioielli dell’Impero ottomano fino al 1918. Cosicché il presidente Erdoğan - il «nuovo Sultano» - ritiene di avere un diritto di controllo su di essa e sulla intera regione. Inoltre egli non vuole a nessun costo che milizie sciite irachene entrino a Mosul. Vuole invece che la città venga liberata «esclusivamente da coloro che hanno legami etnici e religiosi con la città [...] Solo gli Arabi sunniti, i Turcomanni e i Curdi sunniti potranno restarvi». A suo avviso, gli sciiti e i 35.000 cristiani che vi abitavano prima dell’arrivo di Daesh non saranno i benvenuti.
 
Bagdad è totalmente contraria alle iniziative del presidente Erdogan. Il 5 ottobre, il Primo Ministro iracheno Haidar al-Abadi ha chiesto il ritiro da Bachika delle truppe turche, definendole «forze di occupazione» ed ha affermato che «l’avventura turca rischia di trasformarsi in guerra regionale». La risposta non si è fatta attendere. L’11 ottobre Erdogan ha trattato Al-Abadi alla stregua di un semplice vassallo: «Resta al tuo posto; tu non sei il mio interlocutore, tu non sei al mio livello. Ci importa poco quello che tu gridi dall’Iraq, continueremo lo stesso a fare quello che riteniamo giusto. L’esercito della Repubblica turca non ha lezioni da ricevere da voi».
 
L'altra ragione – forse la principale – che spinge Ankara a comportarsi in questo modo in Iraq è il consolidamento delle posizioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nel nord dell’Iraq, soprattutto nella regione di Sinjar dove, nel 2014 e nel 2015, i suoi attivisti si sono opposti con successo a Daesh, mentre i peshmerga erano costretti a ritirarsi, abbandonando la popolazione yazida e cristiana alla sua sorte. Da decine di anni, l’esercito turco bombarda regolarmente le posizioni del PKK nella regione del monte Kandil, nel nord-est dell’Iraq. Non stupisce che voglia impedire che il PKK consolidi stabilmente le sue posizioni verso ovest. Ma il pretesto utilizzato resta la lotta contro Daesh. Quindi Mevlüt Çavuşoğlu, il ministro turco degli Affari esteri ha dichiarato: «Se a Sinjar o in altre regioni (irachene), la minaccia di IS crescerà, allora utilizzeremo tutta la nostra forza» alludendo all’operazione Scudo dell’Eufrate. Da notare che Ankara si è ben guardata dal reagire quando Daesh si impadronì di questa regione nel 2014, massacrando o riducendo in schiavitù gli Yazidi e i cristiani.
 
Il presidente Erdogan è uno specialista delle dichiarazioni teatrali. Non per questo bisogna pensare che sia pazzo. Esse sono soprattutto ad uso interno perché attualmente si trova in una situazione difficile: il terrorismo dilaga di nuovo in tutto il territorio turco [2], la guerra civile è ripresa nel sud-est, l’economia continua a indebolirsi, la gestione del dopo- putsch militare è delicata, ecc. Per lui, si tratta di galvanizzare le sue truppe, di costringere quel poco di opposizione che resta a serrare i ranghi dietro una causa nazionale, di bloccare ogni velleità di espansione delle popolazioni curde e contrastare l’influenza di Teheran. Sul piano internazionale, sa bene che la posizione geostrategica della Turchia impedisce qualsiasi presa di posizione ferma contro le sue iniziative. Sempre sostenuto dalla maggioranza della popolazione, continua a lavorare per la costruzione di un regime presidenziale tagliato su di lui.
 
 
Note:
 
    [1] Posti sotto il diretto controllo dell’Ufficio di coordinamento Hawar Kilis, si trovano l’Esercito di liberazione, la Brigata 51, la Divisione 13, l’Unione Fastaqem, la Brigata Al Fatah, la Divisione Al Hamza, il Fronte del Levante, la Brigata dei Falchi della Montagna, la Divisione del Nord, i Battaglioni islamici Al-Safwah, la Divisione Sultano Murat e la Brigata Sultano Mohamed Fatih. All’esterno di questa struttura, altri gruppi forniscono un aiuto occasionale, come Ahrar al-Cham, la prima sezione di Aleppo, Nour al Din Al Zinki e la legione del Cham.
    [2] Di diverse matrici: il PKK e i suoi alleati, gli islamisti radicali come Daesh (che non rivendica le proprie operazioni per ragioni tattiche), l'estrema sinistra e il crimine organizzato.
 
 
 
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