Crisi Siriana
La realtà del conflitto post siriano: chi contiene chi?
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Crisi siriana, 18 febbraio 2018 - Mentre i leader statunitensi ed europei parlano incessantemente dei loro piani per contenere l’Iran, quest’ultimo e i suoi alleati regionali sono di fatto in grado di contenere – cioè dissuadere militarmente – gli USA e Israele...
Strategic Culture, 23 gennaio 2018 (trad.ossin)
La realtà del conflitto post siriano: chi contiene chi?
Alastair Crooke
Le giravolte e le trattative della Casa Bianca in Medio Oriente con Mohammad bin Salman (MbS), Mohammad bin Zayed (MbZ) e Bibi Netanyahu per raggiungere l’« accordo del secolo » (nella questione israelo-palestinese), non solo hanno portato ad un « niente accordo », ma hanno al contrario esacerbato le tensioni del Golfo trasformandole in una crisi quasi esistenziale. Gli Stati del Golfo sono attualmente molto vulnerabili. L’ambizione ha spinto alcuni leader ad ignorare i limiti strutturali del loro piccoli emirati tribali e mercantili, inducendoli a partecipare a giochi di potere che erano oltre la loro portata, come fossero architetti capaci di delineare un nuovo ordine del Medio Oriente.
Il team di Trump – e qualche Europeo – inebriatisi di questa nuova generazione di trentenni, ambiziosi, diplomatisi alle business school del Golfo, pezzi grossi, si sono bevuti tutto. La First Family [la famiglia del presidente US] ha sposato la narrazione – un capovolgimento della verità – che fa dell’Iran e dell’arco sciita dei mascalzoni e dei terroristi, ed ha pensato di trarne profitto, con un accordo che vedesse Arabia Saudita e Israele operare congiuntamente per ostacolare l’Iran e i suoi alleati, e che in cambio garantisse a Israele, finalmente, la normalizzazione da tempo auspicata col mondo sunnita (l’affare del secolo).
Bene, la decisione sbagliata su Gerusalemme ha messo fine a questo gioco, o piuttosto l’annuncio di Trump ha provocato il contrario, ha offerto alla regione un ‘polo’ intorno al quale gli ex nemici del conflitto siriano possono adesso ritrovarsi in una causa condivisa: difendere Gerusalemme come cultura, storia e fonte di identità comune ai popoli mussulmani e cristiani. Una causa che potrebbe unire la regione – dopo un recente periodo di tensioni e di conflitti.
E gli Stati del Golfo si trovano adesso, dopo la perdita della Siria, trascinati in un altro contenzioso altamente controverso – una sorta di jihad a guida statunitense contro gli sciiti – in tutte le sue espressioni regionali (reali e immaginarie). Un progetto di grande ampiezza che però non giova agli affari (Dubai, per esempio, è essenzialmente un piccolo Stato commerciale del Golfo che sopravvive commerciando con l’Iran e il Pakistan – quest’ultimo dotato di una popolazione sciita di ragguardevoli dimensioni), né alla saggia politica: l’Iran è una nazione vera che vanta 6000 anni di storia, con una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti.
In modo non sorprendente, questo progetto controverso sta facendo a pezzi il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) : l’Oman, che ha consolidati rapporti con l’Iran, non ne ha mai fatto parte; il Kuwait, con la sua importante componente sciita, pratica la coesistenza e l’inclusione dei suoi sciiti. Dubai si preoccupa delle sue prospettive economiche; e il Qatar… Beh, il conflitto col Qatar ha finito per inserire questo paese in un nuovo asse regionale con l’Iran e la Turchia.
Ma, oltre a questo, l’ “Art of the Deal” riguarda anche il revanscismo economico statunitense: gli USA intendono recuperare un terreno economico perso da altri, per colpa (presumibilmente) delle “negligenza delle passate amministrazioni” – secondo l’analisi della Strategia di Sicurezza USA (NSS). Secondo quanto riferito, Washington sta giocando con le tariffe doganali contro la Cina, le sanzioni contro la Russia e una guerra economica mirante a rovesciare il governo dell’ Iran. Se il presidente Trump proseguirà con questa politica (e questa sembra effettivamente la sua intenzione), vi sarà senz’altro una qualche forma di rappresaglia economica da parte della Cina, della Russia e dell’Iran. Già l’area e la popolazione coperti dal sistema del petrodollaro si sono ridotte – e potrebbero ridursi ulteriormente (includendo forse anche l’Arabia Saudita che accetta adesso il pagamento in yuan per il suo petrolio).
In breve, la base di liquidità (depositi di petrodollari) su cui si fondano la super sfera finanziaria del Golfo e gran parte del suo benessere economico, si restringerà. E ciò avviene in un momento in cui le entrate petrolifere sono già diminuite (la prima tappa della contrazione in corso del petrodollaro), con gli Stati del Golfo che devono fare economie fiscali, a spese dei cittadini. La Cina ha recentemente reagito ai piani di guerra commerciale degli Stati Uniti, lasciandosi sfuggire intenzionalmente (poi ritrattando) l’idea che la Banca Centrale della Cina potrebbe smettere di comprare titoli del Tesoro USA, o che potrebbe sbarazzarsi di quelli che già possiede. E la grande agenzia di rating cinese, Dagong, ha declassato il debito sovrano USA da A- a BBB+, suggerendo in modo efficace che le riserve in titoli del Tesoro USA possedute dai paesi del Golfo non siano più quegli attivi privi di rischi che si pensava, e potrebbero persino svalutarsi se i tassi di interesse aumentassero, o se si procedesse negli USA ad un nuovo QE4 (Quantitative Easing, alleggerimento quantitativo).
Com’è possibile allora che il Golfo si sia collocato in una posizione così esposta? Essenzialmente attraverso il non riconoscimento, e poi il superamento, dei propri limiti intrinsechi, è la prima risposta. Alla fine degli anni 1990 e all’inizio degli anni 2000, erano il Qatar, e il suo emiro Hamad bin Khalifa, ad essere percepiti come politicamente forti, molto al di là del minuscolo peso del Qatar (200 000 abitanti). Il Qatar aveva inaugurato la rete di informazione al-Jazeera, una innovazione scioccante nel mondo arabo dell’epoca, ma che sarebbe diventato uno strumento davvero efficace durante le sedicenti primavere arabe. Ad Al-Jazeera è stata accreditata – almeno è quello che l’Emiro mi disse all’epoca – la caduta del presidente Mubarak e la costituzione del quadro politico che scatenò l’ondata di manifestazioni popolari del 2011. Forse le valutazione dell’Emiro erano fondate. Sembrò allora che i governi di una gran parte dei paesi del Golfo (compresi gli Emirati Arabi Uniti) avrebbero potuto essere rovesciati dalla “guerra dell’informazione” di Al-Jazeera e cadere nelle mani dei Fratelli Mussulmani, che il Qatar alimentava considerandoli uno strumento per “riformare” il mondo arabo sunnita.
Per essere chiari, il Qatar stava sfidando proprio l’Arabia Saudita – e non solo sul piano politico: sponsorizzando i Fratelli Mussulmani, contestava la dottrina stessa che costituisce la base religiosa della monarchia assoluta dell’Arabia Saudita (I Fratelli Mussulmani, al contrario degli al Saud, sostengono che la sovranità spirituale appartiene alla comunità dei credenti , la Umma, e non al re saudita). I Sauditi detestavano questa arroganza rivoluzionaria del Qatar che minacciava completamente il dominio degli al-Saud. E la detestava anche Mohammed bin Zayed (MbZ), che pensava che i Fratelli Mussulmani avessero di mira anche il suo regno di Abu Dhabi (e così era). C’erano anche antiche rimostranze e competizioni nella rivalità tra Abu Dhabi e il Qatar. L’Emiro del Qatar alla fine si era spinto troppo oltre, venne cacciato dal trono ed esiliato nel 2013.
Storicamente, Abu Dhabi ha sempre avuto relazioni un po’ fragili con l’Arabia Saudita, che manteneva un atteggiamento di condiscendenza verso questi emirati minori, ma col principe ereditario che governa attualmente l’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (MbS), MbZ ha individuato la possibilità per lui (e Abu Dhabi), non solo di influenzare il giovane MbS, ma anche per Abu Dhabi di diventare il nuovo Qatar, boxando ben al di sopra del suo peso politicamente leggero. Ma, al contrario del Qatar, non cercando di rivaleggiare con l’Arabia Saudita, piuttosto diventando il “Mago di Oz” dietro le quinte, manovrando l’Arabia Saudita per guadagnare influenza negli Stati Uniti, e ottenere così l’approvazione e il favore statunitense nei confronti della posizione di MbS e sua, anti Fratelli Mussulmani, laica, neoliberale e anti-iraniana.
E in un certo senso, il successo di MbZ, dopo la guerra israeliana del 2006 contro Hezbollah, nel costruire un rapporto con gli Statunitensi (grazie al generale Petraeus, all’epoca comandante del CentCom) centrato sulla minaccia iraniana; il suo abile uso della paura di una possibile infiltrazione dei Fratelli Mussulmani per aprire una porta ad un maggiore controllo di Abu Dhabi su Dubai e gli altri principati, sul piano della sicurezza; e il suo uso dell’assistenza finanziaria offerta da Abu Dhabi agli altri emirati dopo la crisi finanziaria del 2008, dovevano essere l’esperienza pilota per l’eliminazione dei rivali politici e l’acquisizione di un potere illimitato. Questa marcia verso l’alto doveva essere un modello per la successiva ascensione di MbS verso il comando assoluto in Arabia Saudita, sotto la guida del più vecchio MbZ. Il duo aveva il progetto di invertire il corso delle cose in Medio Oriente (nientemeno!) fermando l’Iran e, con l’aiuto statunitense e israeliano, di restaurare il primato dell’Arabia Saudita.
Il presidente Trump ha sposato (sembra in modo irrevocabile) la causa di MbS e MbZ. Ma anche questo si è rivelato un caso di sopravvalutazione del Golfo: quest’ultimo non ha potuto fare niente per “normalizzare” Gerusalemme in Israele, e niente ha potuto fare Netanyahu per migliorare la situazione dei Palestinesi (né nell’attuale coalizione, né formandone un’altra). E, in ogni caso, nemmeno Mahmoud Abbas poteva concedere nulla sullo status di Gerusalemme. Allora Trump ha semplicemente donato la città santa a Israele, producendo così un momento emblematico di isolamento diplomatico quasi completo degli USA. Politicamente, MbS, MbZ, Netanyahu e Jared Kushner hanno tutti fallito e ne escono umiliati e indeboliti. Ma – cosa importante – il presidente Trump ora è bloccato nel suo abbraccio con una leadership saudita battuta, e nella sua antipatia radicale verso l’Iran, come ha dimostrato all’ONU nel suo discorso di settembre all’Assemblea Generale.
Bloccato dal progetto anti iraniano, il presidente Trump si trova adesso – a causa del suo errato giudizio sulle capacità di MbS e di MbZ di portare qualcosa di sostanziale – senza truppe armate sul terreno. Il Consiglio di cooperazione del Golfo è a pezzi, l’Arabia Saudita è in ebollizione, l’Egitto deriva verso Mosca (acquistando dalla Russia dei sistemi antimissili S300 per 1 miliardo di dollari e 50 aerei da combattimento Mikoyan MiG-29 per 2 miliardi di dollari). La Turchia è messa fuori e gioca sui due tavoli, Mosca e Washington, e una gran parte dell’Iraq si schiera con Damasco e con Teheran. Perfino gli Europei oppongono resistenza alla politica statunitense in Iran.
Certo Trump può ancora far male all’Iran. Lo può fare anche senza uscire dal trattato sul nucleare JCPOA. La sua posizione di incertezza sul ritiro o meno dal JCPOA, e anche le sue minacce di sanzioni alternative, sono di per sé sufficienti a mettere in fuga le imprese europee (e qualche altra importante) che avrebbero voluto investire in Iran; ma per quanto possa essere doloroso per il popolo iraniano, questo non può mascherare la nuova realtà del conflitto post-siriano: che in Libano, in Siria o in Iraq, poco si può fare senza una partecipazione iraniana, in un modo o in un altro. Anche la Turchia non può perseguire una realistica strategia curda senza l’aiuto iraniano. E la Russia e la Cina hanno entrambi bisogno dell’aiuto iraniano per garantirsi che il progetto della Via della Seta, One Belt, One Road, non venga fatto deragliare dagli estremisti jihadisti.
Ecco la realtà: mentre i leader statunitensi ed europei parlano incessantemente dei loro piani per contenere l’Iran, quest’ultimo e i suoi alleati regionali (Siria, Libano, Iraq – e in misura imprevedibile la Turchia) sono di fatto in grado di contenere – cioè dissuadere militarmente – gli USA e Israele. E il centro di gravità economico della regione, inesorabilmente, si allontana dal Golfo verso la Cina e il progetto euroasiatico della Russia. La forza economica del Golfo ha superato il suo picco.
Il dispiegamento di una “piccola” forza di occupazione statunitense nel nord est della Siria non è tanto una minaccia per l’Iran, fornisce piuttosto un ostaggio a Damasco e Teheran. Tale è lo spostamento dell’equilibrio dei poteri tra gli Stati del Nord della regione e quelli del Sud. E’ un simbolismo - una forza militare statunitense in Siria apparentemente per “contenere l’Iran” – di cui gli Stati Uniti potrebbero pentirsi se la Turchia dovesse agire – o alla fine abbandonare, lasciando i loro ex alleati curdi girare in tondo nel vento secco siriano.