La tortura è sistematica (e legale) in Israele
- Dettagli
- Visite: 6894
Le Grand Soir, 1° dicembre 2019 (trad.ossin)
La tortura è sistematica (e legale) in Israele
Yara Hawari
Il caso recente di Samer Arbeed evidenzia una volta di più il ricorso sistematico alla tortura contro i detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane. Soldati israeliani hanno arrestato Arbeed a casa sua, a Ramallah, il 25 settembre 2019. Lo hanno picchiato duramente prima di condurlo al centro di detenzione Al Moscobiyye, a Gerusalemme, per essere interrogato. Due giorni, per quanto riferito dal suo avvocato, Arbeed è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato violentemente torturato ed è rimasto in pericolo di vita per diverse settimane. Una qualche autorità giudiziaria aveva autorizzato i servizi segreti israeliani, lo Shin Bet, a utilizzare "metodi eccezionali" per ottenere informazioni, senza dover passare dai tribunali. La procedura è stata denunciata da Amnesty International che l’ha definita una "tortura vietata dalla legge". 1
Ad agosto 2019, poco prima dell’arresto di Arbeed, le forze di occupazione israeliane hanno lanciato un’operazione contro i giovani palestinesi e arrestato più di 40 studenti dell’università di Birzeit. Dopo l’arresto di Arbeed gli arresti si sono moltiplicati e, giacché a molti studenti è stato negato il diritto di difesa legale, si teme che anche molti di loro siano stati sottoposti a tortura.
Simili atti di tortura non sono una novità. Fin dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948, l’Agenzia per la sicurezza israeliana (ISA) tortura sistematicamente i Palestinesi ricorrendo a diverse tecniche. Molti paesi hanno vietato per legge la tortura (che comunque è una pratica diffusa in nome delle esigenze di sicurezza dello Stato), ma Israele ha scelto una strada diversa: non ha vietato per legge l’uso della tortura, e i suoi tribunali autorizzano il ricorso alla tortura in caso di "necessità". Ciò ha lasciato ampi margini all’ISA per ricorrere ampiamente alla tortura contro i prigionieri politici palestinesi.
Questo articolo intende descrivere la pratica della tortura nelle prigioni israeliane (al momento dell’arresto e durante la detenzione), ricostruirne la storia, e analizzarne gli sviluppi recenti. Facendo tesoro del lavoro di diverse organizzazioni palestinesi, l’articolo dimostra che la pratica della tortura, nel sistema penitenziario israeliano, è sistematica e prevista dalla legislazione nazionale. Propone infine una serie di iniziative che consentano alla comunità internazionale di chiederne conto a Israele e porre fine a queste violazioni.
La tortura e la legge
La questione della tortura occupa un posto importante nel dibattito etico e morale. Molte persone sottolineano che la pratica della tortura è indice di una società malata e corrotta. Infatti, per praticare la tortura, bisogna non avere più niente di umano e, una volta avviato un simile processo di disumanizzazione, non vi sono più limiti. Inoltre, la scusa di solito invocata dagli apparati di sicurezza per giustificare la tortura, vale a dire che essa consente di ottenere delle informazioni vitali, è smentita dai fatti. Secondo molti riconosciuti esperti, e perfino secondo i responsabili della CIA, le informazioni ottenute sotto tortura sono generalmente false. I detenuti confessano spesso qualsiasi cosa pur di porre un termine alle loro sofferenze.
Il regime giuridico internazionale vieta la tortura in base al diritto internazionale consuetudinario e a diversi trattati internazionali e regionali. L’articolo 5 della Dichiarazioni universale dei diritti dell’uomo stabilisce che: "Nessuno sarà sottoposto alla tortura, né a pene o trattamenti degradanti". Anche il diritto internazionale umanitario, che disciplina i comportamenti delle parti durante i conflitti, vieta la tortura. Per esempio, la terza Convenzione di Ginevra vieta le "violenze contro la vita e le persone, in particolare l’omicidio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli e la tortura", insieme alle "lesioni della dignità personale, e particolarmente i trattamenti umilianti e degradanti". Ulteriormente, la Quarta Convenzione stabilisce: "Nessuna costrizione fisica o morale può essere esercitata nei confronti delle persone protette, in particolare per ottenere da loro o da altri informazioni”.
Il divieto di tortura è talmente assoluto che viene considerato quale jus cogens nel diritto internazionale, vale a dire che non può essere oggetto di alcuna deroga, né essere sostituito da alcuna altra regolamentazione. Ciononostante la tortura continua a essere praticata in molti paesi. Amnesty International parla di una crisi mondiale, dal momento che ha documentato violazioni del divieto di tortura in un’ampia maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite, nel corso degli ultimi cinque anni.
La "guerra contro il terrorismo" realizzata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 ha prodotto soprattutto casi di atroci torture sistematiche, le cui vittime sono state principalmente prigionieri arabi e musulmani. Il campo di detenzione di Guantanamo Bay, creato dagli Stati Uniti nel 2002 per ospitare alcuni "terroristi", è stato e resta tuttora un luogo di tortura. Immagini di prigionieri con gli occhi bendati, ammanettati e inginocchiati in tute arancioni sono state condivise in tutto il mondo.
Tuttavia le immagini più forti di quell’epoca provengono forse dalla prigione statunitense di Abu Ghraib in Iraq. Foto e fughe di notizie hanno rivelato che quella prigione era teatro di torture su grande scala, ivi compresi lo stupro di uomini, donne e bambini. L’amministrazione statunitense dell’epoca ha condannato questi atti, tentando di far credere che si trattava di incidenti isolati. Le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo, tra cui Human Rights Watch, hanno affermato il contrario.
Inoltre, testimonianze recenti di Abou Ghraib rivelano sinistre somiglianze tra le tecniche di interrogatorio statunitensi e quelle israeliane. In un memo, un ex interrogante statunitense in Iraq ha affermato che l’esercito israeliano aveva formato il personale statunitense a diverse tecniche di interrogatorio e di tortura, compresa la cosiddetta "sedia palestinese", che prevede che un detenuto venga legato ad una sedia bassa con le mani legate ai piedi, in posizione accovacciata. Questa pratica atrocemente dolorosa è stata perfezionata sui Palestinesi – di qui il suo nome – ed è stata adottata dagli Statunitensi in Iraq.
Malgrado questi scandali, pochissime misure sono state adottate per proteggere i prigionieri di guerra, e la tortura continua a venire giustifica con ragioni di sicurezza. Nella sua prima intervista, Donald Trump, che aveva appena prestato giuramento come presidente USA, ha detto che nel contesto della "guerra contro i terrorismo", la "tortura funziona". La cultura popolare, come le serie televisive "24" e "Homeland", contribuiscono a far considerare come normale il ricorso alla tortura, soprattutto contro gli Arabi e i Musulmani, e fanno credere che essa si giustifichi in nome di interessi superiori. C’è anche stato un aumento crescente di serie televisive e film che mettono in scena le attività del Mossad e del Shin Bet, come Fauda, The Spy e Dead Sea Diving Resort, che esaltano come eroiche le attività dell’ISA, mentre demonizzano come terroristi i Palestinesi. Queste serie e film presentano al mondo un’immagine di Israele che permette a questo paese di giustificare le sue violazioni del diritto internazionale, compresa la tortura.
Nonostante Israele abbia ratificato la Convenzione contro la tortura (CAT) nel 1991, non l’ha inglobata nella propria legislazione nazionale. Inoltre, nonostante la contraria affermazione del Comitato delle Nazioni Unite, Israele afferma che la Convenzione contro la tortura non si applica ai territori palestinesi occupati. Giacché essa viene consentita nei casi di "necessità", Israele pretende che al suo interno non si registrino crimini di tortura, come ha fatto nella vicenda Arbeed. Questa "necessità" ha assunto il nome evocatore di "bomba a scoppio ritardato", che consente a molti governi di giustificare la tortura e la violenza in situazioni considerate urgenti.
In Israele sono state pronunciate anche diverse sentenze che hanno approvato l’attività dei servizi di sorveglianza. Per esempio, nel 1987, due Palestinesi hanno dirottato un bus israeliano e sono stati poi arrestati, picchiati e giustiziati dallo Shin Bet. I media israeliani ricevettero l’ordine di non parlarne, ma dettagli sulle torture praticate e sull’esecuzione trapelarono e determinarono la creazione di una commissione governativa di indagine. Questa ha concluso i suoi lavori, affermando che "la pressione [sui detenuti] non deve mai assumere i caratteri della tortura fisica... forme moderate di pressione fisica non possono essere evitate". Le raccomandazioni della commissione hanno ignorato le disposizioni del diritto internazionale, evitando di definire cosa si intendeva per "forme moderate di pressione fisica", e hanno dato di fatto allo Shin Bet la libertà di torturare i Palestinesi.
Oltre un decennio più tardi, sulla richiesta formulata da una organizzazione di difesa dei diritti dell’uomo, la Corte di giustizia israeliana ha emesso nel 1999 una sentenza statuente che gli interroganti dell’ISA non erano più autorizzati a servirsi di mezzi fisici nel corso degli interrogatori, vietando quindi il ricorso alla tortura. La Corte ha stabilito che quattro frequenti metodi di "pressione fisica" (scosse violente, il legare ad una sedia in una posizione stressante, mantenere i prigionieri a lungo accovacciata nella posizione della rana, e la privazione del sonno) erano illegali. Ma la Corte ha anche fornito una scappatoia agli interroganti, considerando non punibili coloro che si rendevano colpevoli di pressioni fisiche se avessero agito in una situazione di bomba a scoppio ritardato, o per necessità per la difesa dello Stato – detto in altri termini, se il detenuto era considerato una minaccia immediata alla sicurezza pubblica.
La tortura come esigenza securitaria è stata riaffermata nel 2017, quando l’Alta Corte di giustizia israeliana ha assunto una decisione in favore di Shin Bet, che aveva ammesso di aver commesso ciò che definiva "forme estreme di pressione" sul detenuto palestinese Assad Abu Ghosh. La loro giustificazione era che Abu Ghosh possedeva informazioni su di un imminente attacco terrorista. La Corte ha ritenuto essersi trattato di un "interrogatorio rafforzato" piuttosto che di tortura, e ha dichiarato essere giustificato secondo la dottrina della bomba a scoppio ritardato. I tribunali hanno emesso regolarmente sentenze in questo senso.
Benché le organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti dell’uomo presentino continui ricorsi alle autorità israeliane, raramente questi ricevono risposta e, quando anche arriva, è quasi sempre per informarle che il fascicolo è stato archiviato per mancanza di prove. Infatti, sono stati presentati 1 200 ricorsi contro i servizi di sicurezza per tortura dal 2001, ma nessun agente è stato mai messo sotto indagine.
Il sistema penitenziario israeliano: luoghi di tortura sistematici
Ogni anno, il sistema penitenziario militare israeliano tiene in detenzione migliaia di prigionieri politici palestinesi, per lo più provenienti dai territori occupati nel 1967. Da quando è iniziata l’occupazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza e da quando è stata imposta la legge marziale in questi territori, Israele ha arrestato più di 800 000 Palestinesi, vale a dire il 40 % della popolazione maschile, o un quinto di tutta la popolazione.
La legge israeliana autorizza anche l’esercito ad arrestare qualcuno fino a sei mesi senza alcuna incolpazione nell’ambito di una procedura nota come detenzione amministrativa. Questo periodo può essere prolungato indefinitamente, e le prove a carico vengono mantenute segrete. I detenuti e i loro avvocati non sanno quindi di cosa vengono accusati né quali prove sussistono a loro carico. L’ultimo giorno del periodo di sei mesi, le persone detenute vengono informate se saranno liberate o se la loro detenzione sarà prolungata. Addameer, l’Associazione per l’aiuto ai prigionieri e i diritti dell’uomo, ha definito questa pratica, in sé, come una tortura psicologica.
E’ nel corso del periodo iniziale di detenzione, amministrativa o di altro tipo, quando i detenuti sono spesso privati di qualsiasi contatto con gli avvocati e/o i familiari, che vengono sottoposti alle forme più violente di interrogatorio e di tortura. Quando e se arrivano in tribunale, vengono giudicati da militari israeliani e subiscono spesso gravi limitazioni ai diritti di difesa. E’ un sistema illegale, e i gruppi palestinesi e internazionali di difesa dei diritti dell’uomo hanno documentato una vasta gamma di violazioni.
Nemmeno i bambini vengono risparmiati dalle pratiche di detenzione e tortura nel sistema militare israeliano, e sono spesso privati del diritto di essere assistiti dai genitori nel corso degli interrogatori. Così avvenne, per esempio, nel 2010 quando la polizia di frontiera israeliana arrestò Mohammed Halabiyeh, 16 anni, nella città natale di Abu Dis. Nel corso dell’arresto, la polizia gli spezzò una gamba e lo pestò, sferrandogli intenzionalmente calci alla gamba spezzata. Venne sottoposto a interrogatorio per cinque giorni consecutivi, fatto oggetto di minacce di morte e di aggressione sessuale. Venne poi ricoverato in ospedale e, anche lì, agenti israeliani continuarono a maltrattarlo pungendolo in tutto il corpo con siringhe e colpendolo al viso. Halabiyeh è stato processato e giudicato come fosse un adulto, come accade a tutti i bambini palestinesi detenuti che hanno più di 16 anni, con diretta violazione della Convenzione sui diritti dei bambini 3. Israele arresta, tiene in detenzione e processa ogni anno tra i 500 e i 700 bambini palestinesi.
Vi sono attualmente 5 000 prigionieri politici palestinesi, tra cui 190 bambini, 43 donne e 425 detenuti in detenzione amministrativa, la maggior parte dei quali è stata sottoposta a tortura. Secondo Addameer, i metodi più frequentemente utilizzati dallo Shin Bet e dagli interroganti sono i seguenti:
- Tortura posizionale: I detenuti sono posti in posizioni stressanti, spesso con le mani legate dietro la schiena e i piedi incatenati, e obbligati a piegarsi. Vengono lasciati a lungo in questa posizione durante gli interrogatori.
- Pestaggio: I detenuti vengono spesso picchiati, con le mani o con oggetti, talvolta fino a ridurli in uno stato di incoscienza.
- Isolamento: I detenuti vengono posti in isolamento per lunghi periodi.
- Privazione del sonno: Ai detenuti viene impedito di riposare o di dormire e vengono sottoposti a lunghe sedute di interrogatorio.
- Tortura sessuale: Gli uomini, le donne e i bambini palestinesi sono vittime di stupro, di molestie fisiche e di minacce di violenze sessuali. La molestia sessuale verbale è una pratica particolarmente frequente, e consiste nel rivolgere ai detenuti ripetuti commenti di carattere sessuale su di loro e i familiari. Si tratta di un tipo di tortura considerata efficace perché la vergogna che consegue alle violazioni sessuali impedisce ai detenuti di rivelarle.
- Minacce ai familiari: Gli interroganti minacciano rappresaglie contro i familiari per indurre i detenuti a parlare. Vi sono stati casi in cui familiari sono stati arrestati e interrogati in una stanza vicina per far sentire ai detenuti che venivano torturati.
I metodi di tortura di cui sopra provocano danni durevoli. Mentre la tortura fisica può provocare danni corporali, comprese fratture ossee e dolori muscolari e articolari cronici, dovuti in particolare alle posizioni stressanti o al fatto di essere costretti in spazi ridotti, i danni psicologici possono essere ancora più gravi, e provocare una depressione profonda e durevole, allucinazioni, ansietà, insonnie e pensieri suicidi.
Molti meccanismi di tortura esigono la complicità del sistema giudiziario militare israeliano, compreso il personale medico che viola sistematicamente il codice etico medico, definito dalla Dichiarazione di Tokyo e dal Protocollo di Istanbul, che stabilisce che i medici non devono collaborare con chi pratica la tortura, non devono condividere informazioni mediche coi torturatori e devono opporsi attivamente alla tortura. Di fatto, i medici israeliani sono da tempo complici della tortura dei detenuti e prigionieri palestinesi. Col passare degli anni, i giornalisti hanno scoperto documenti che rivelano che i medici sono stati complici di atti di tortura e redatto false dichiarazioni a giustificazione delle ferite provocate dalla tortura.
I medici sono anche complici dell’alimentazione forata – un altro meccanismo di tortura, anche se meno frequente, usata dal regime israeliano. Nei casi di alimentazione forzata, il detenuto viene legato mentre gli infilano un tubicino nella narice fino allo stomaco. Il liquido viene poi fatto scorrere lungo il tubo per alimentare il corpo. Il personale medico deve inserire il tubo, che può talvolta deviare verso la bocca o la trachea invece di andare verso l’esofago, nel qual caso occorre ricominciare l’operazione. Non solo è dolorosissimo, ma può anche provocare gravi complicazioni mediche e perfino la morte.
Negli anni 1970 e 1980, diversi prigionieri palestinesi sono deceduti a causa dell’alimentazione forzata, e l’Alta Corte di Israele aveva imposto la cessazione di questa pratica. Ma una legge delle Knesset del 2012 ha reintrodotto l’alimentazione forzata per impedire gli scioperi della fame palestinesi. In una allocuzione pronunciata dinanzi al Primo Ministro israeliano nel giugno 2015, l’Associazione Medica Mondiale ha dichiarato che "l’alimentazione forzata è violenta, spesso dolorosa, e spesso contraria al principio di autonomia individuale. E’ un trattamento degradante, inumano, e può equivalere alla tortura".
Lottare contro la tortura israeliana
Per i Palestinesi, la tortura è solo una delle facce della violenza strutturale che subiscono da parte del regime israeliano, che li chiude in una prigione a cielo aperto e li priva dei loro diritti fondamentali. E’ anche una questione che riceve poca attenzione da parte della comunità internazionale, generalmente perché le autorità israeliane utilizzano l’argomento della sicurezza dello Stato, rafforzata dal discorso della "guerra contro il terrorismo". E’ così che il calvario di Samer Arbeed, presentato dai media israeliani come terrorista, è stata ignorata dalla maggior parte degli Stati, nonostante le petizioni e le pressioni di molte organizzazioni palestinesi e internazionali di difesa dei diritti dell’uomo. Come per le altre violazioni commesse contro il popolo palestinese, la tortura israeliana ci costringe a chiederci a cosa serva il diritto internazionale.
Il 13 maggio 2016, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite ha chiesto a Israele di adottare più di 50 misure, a seguito di un controllo sul suo rispetto della Convenzione contro la tortura. Ha raccomandato, tra l’altro, che tutti gli interrogatori vengano registrati e filmati, che i detenuti vengano sottoposti a esami medici indipendenti e che venga abolita la detenzione amministrativa. Si tratta, ovviamente, di raccomandazioni importanti, e Israele dovrebbe conformarsi ad esse. Ma tutto ciò non serve a niente finché gli Stati terzi evitano di chiedere conto a Israele delle violazioni del diritto internazionale e dei diritti dei Palestinesi.
Ecco qualche iniziativa che potrebbero assumere coloro che militano in favore dei diritti dei Palestinesi sulla scena internazionale e nazionale per porre fine alla natura sistematica della tortura israeliana:
- Le organizzazioni e i gruppi devono avviare iniziative penali contro persone, fuori da Israele e dalla Palestina, che siano coinvolte nella tortura dei Palestinesi. La responsabilità può estendersi non solo a coloro che commettono atti di tortura, ma anche a coloro che li permettano, li incoraggino o omettano di segnalarli. Dunque gli interroganti, i giudici militari, le guardie penitenziarie e i medici. Essendo la tortura un crimine di guerra jus cogens, rientra nella giurisdizione universale, e ciò vuol dire che chiunque può denunciare questi individui. Se la denuncia penale non risolve necessariamente il problema della tortura sistematica dei Palestinesi, esercita però una pressione sugli Israeliani coinvolti, limitando i loro movimenti e i loro spostamenti negli altri paesi. 4
- Quale unico organo giudiziario in grado di porre fine all’impunità in materia di violazione dei diritti dei Palestinesi, la Corte penale internazionale ha la responsabilità di chiederne conto a Israele. L’Ufficio del Procuratore, con tutte le informazioni e i rapporti dettagliati che gli sono stati presentanti, deve aprire un’inchiesta ufficiale sulle violazioni commesse nel sistema carcerario israeliano.
- Gli Stati firmatari delle Convenzioni di Ginevra e le organizzazioni internazionali di difesa dei diritti dell’uomo devono fare pressione sul Comitato internazionale della Croce Rossa perché adempia il suo mandato di protezione dei detenuti palestinesi e apra un’inchiesta per ogni denuncia di tortura. 5
- La società civile e le istituzioni palestinesi devono continuare a sostenere coloro che vanno in aiuto alle vittime della tortura. Devono risolutamente accrescere l’aiuto che viene loro fornito, e renderlo disponibile in tutte le regioni della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Bisogna anche superare i tabù che circondano le aggressioni sessuali e gli interventi terapeutici che esse richiedono. Il trattamento delle vittime di aggressione sessuale è spesso difficile perché esse hanno troppa vergogna per parlarne, e l’assenza di comunicazione rende più incerta la guarigione. Tali azioni concertate permetteranno ai Palestinesi e ai loro alleati di porre dei limiti alle pratiche di tortura profondamente radicate nel sistema penitenziario israeliano e coperte dal diritto israeliano, aiutando anche chi ne ha sofferto a guarire.
L’autore intende ringraziare Basil Farraj, Suhail Taha e Randa Wahbe per il loro aiuto e la loro competenza nella redazione dell’articolo.
Note:
1. Questo articolo è stato scritto con l’aiuto della Heinrich-Böll-Stiftung. Le opinioni qui espresse sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della Heinrich-Böll-Stiftung.
2. Secondo B’tselem, "Israele pretende di non essere vincolata alle norme del diritto internazionale relative ai diritti dell’uomo nei territori occupati, perché essi non sono ufficialmente territorio israeliano sovrano. Se è vero che Israele non esercita la sovranità nei territori occupati, non per questo Israele non vincolata al rispetto delle disposizioni internazionali sui diritti dell’uomo. I giuristi internazionali non sono d’accordo con la posizione di Israele sulla questione, e la Corte Internazionale di giustizia (CIJ) e anche tutti i Comitati dell’ONU che controllano l’attuazione delle diverse convenzioni relative ai diritti dell’uomo hanno respinto la posizione di Israele a varie riprese. Questi organismi internazionali hanno affermato più volte che gli Stati devono rispettare le disposizioni sui diritti della persona dovunque essi esercitino un controllo reale".
3. Nel 2009, Israele ha creato un tribunale militare per i minorenni, competente a giudicare i minori di 16 anni – l’unico paese del mondo a farlo. Secondo l’UNICEF, vengono impiegate le stesse istallazioni e lo stesso personale giudiziarie del tribunale degli adulti.
4. Il caso di Tzipi Livni ne è la prova: Livni era la ministra israeliana degli Affari esteri durante l’assalto contro Gaza del 2009 che ha provocato più di 1 400 morti tra i Palestinesi. Lo stesso anno, un gruppo di avvocati del Regno Unito riuscì ad ottenere da un tribunale britannico un mandato di arresto contro di lei. Ella dovette di conseguenza annullare il viaggio programmato in Regno Unito e anche quello in Belgio nel 2017, quando la Procura belga annunciò di volerla arrestare e interrogare sul ruolo svolto in questa aggressione.
5. Recentemente, dopo l’arresto e la tortura di Samer Arbeed, il CICR ha pubblicato una dichiarazione, ma invece di condannare le violazioni israeliane, ha denunciato gli attivisti che avevano manifestato e occupato gli uffici del CICR a Ramallah, per protestare contro il silenzio dell’organizzazione su Arbeed.
Leggi anche: L'eccezionalità dello Stato di Israele
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura |