La giustizia marocchina, strumento di potere e di repressione
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l'Humanité, 28 dicembre 2016 (trad.ossin)
La giustizia marocchina, strumento di potere e di repressione
Rosa Moussaoui
La corte d’appello di Rabat ha respinto, lunedì, la richiesta di libertà provvisoria per i 21 detenuti saharawi di Gdeim Izik, condannati nel 2013 dal tribunale militare unicamente sulla base di confessioni estorte con la tortura. Sentenza peraltro annullata questa estate dalla Corte di Cassazione
Vestiti con ampie derâa bianche, Ennaâma Asfari e i suoi compagni vanno su e giù all’interno della gabbia di vetro circondata da una schiera di poliziotti, di solito riservata ai sospetti di terrorismo. Sul banco degli accusati, in un incubo giudiziario cominciato sei anni fa, con gli scontri costati la vita a undici agenti delle forze di sicurezza e a due civili durante lo smantellamento forzoso dell’accampamento di protesta di Gdeim Izik, nei pressi di Laâyoune, nel Sahara Occidentale occupato, l’8 novembre 2010.
Come si possono far passare dei militanti dei diritti umani per criminali comuni? La sorte dei 21 detenuti saharawi di Gdeim Izik, che devono essere giudicati nuovamente il 23 gennaio 2017 a Rabat, getta una luce fosca sul «consolidamento dello stato di diritto» che la monarchia marocchina cerca di mettere in scena dal 2011 con l’approvazione di una nuova Costituzione. La vicenda è così poco trasparente che la giustizia militare, che ha istruito il processo in prima istanza, è stata smentita dalla Corte di cassazione che ha rinviato il processo, il 27 luglio scorso, per un nuovo giudizio dinanzi la giurisdizione ordinaria. Al di là della mancanza di giurisdizione dei tribunali militari quando si tratta di civili, la più alta istanza giudiziaria ha rilevato nella sentenza parecchie irregolarità, elencate da Ingrid Metton e Olfa Ouled, avvocati francesi dei detenuti saharawi, nel corso dell’udienza di lunedì, dinanzi la corte d’appello di Rabat. «Ennaâma Asfari, condannato a trenta anni di reclusione, venne arrestato e condotto al commissariato, dove è stato picchiato, umiliato, torturato, il giorno prima dei fatti di Gdeim Izik. Come può in queste condizioni essersi reso colpevole dell’uccisione di un gendarme?» s’indigna Laitre Metton, lei stessa fermata a Rabat, trattenuta tre ore in un commissariato, poi espulsa il 6 aprile scorso, in occasione di un viaggio fatto per incontrare il suo cliente. I nomi delle vittime che gli imputati avrebbero ucciso non sono stati neppure menzionati nel corso del primo processo, nel 2013. Senza autopsia, senza prove materiali né testimonianze, i 21 sono stati condannati a pene che vanno dai venti anni di reclusione all’ergastolo, sulla sola base di confessioni estorte con la tortura. E’ quanto ha ricordato l’avvocato Joseph Breham, lunedì, durante la sua arringa continuamente interrotta dal presidente della corte d’appello di Rabat, chiedendo la concessione della libertà provvisoria per i 21 detenuti.
«Questa privazione della libertà del tutto ingiustificata!»
La semplice menzione da parte dell’avvocato francese della recente condanna del Marocco da parte del Comitato dell’ONU contro la tortura, su denuncia della Association des chrétiens pour l’abolition de la torture (Acat) a nome di Ennaâma Asfari, è bastata a scatenare l’ira dei giudici e l’isteria tra gli avvocati delle famiglie degli agenti di sicurezza rimasti uccisi a Gdeim Izik. «Questa decisione dell’ONU vi impone di riparare tutti i danni provocati al mio cliente, e il primo di essi è questa privazione della libertà del tutto ingiustificata!» ha insistito l’avvocato Breham. Domanda respinta, secondo le previsioni, dopo la requisitoria incredibile del procuratore generale del re, Hassan Daki, che si rifiuta di «discutere delle accuse di tortura, che non sono argomento sufficiente a giustificare una richiesta di libertà provvisoria». Sempre il procuratore, poi, si è rallegrato della presenza di osservatori stranieri e di media nazionali e internazionali, che «consolida», a suo avviso, «la trasparenza del processo e garantisce che esso sia giusto ed equo».
Venuto da Napoli come osservatore, il magistrato italiano Nicola Quatrano non condivide affatto tali conclusioni. «Questo non è un processo, è una vetrina. Quando l’avvocato Breham ha spiegato che le accuse si fondavano solo sulle confessioni ottenute con la tortura, fatti accertati dal Comitato dell’ONU contro la tortura, gli è stato impedito di parlare, letteralmente, col pretesto che si trattava di argomenti non pertinenti. Sono al contrario assolutamente pertinenti! Non consentire che si affronti questa questione fondamentale basta a far svanire ogni illusione di processo equo», analizza, sottolineando anche la «bizzarria» giudiziaria di un rinvio del processo dinanzi la Corte d’appello di Rabat, dopo l’annullamento della sentenza del tribunale militare da parte della Corte di cassazione. «Si sarebbe dovuto riportare il processo al primo grado di giudizio», ritiene il giudice italiano. Per quanto la Corte d’appello abbia deciso di rinviare l’udienza al 23 gennaio, le questioni di fondo sono già emerse nel corso di questa prima udienza. Mohammed Messaoudi, un avvocato della difesa appartenente alla Associazione marocchina dei diritti dell’uomo (AMDH), ha ricordato che la maggior parte degli imputati era impegnata in un dialogo con le autorità marocchine per trovare una via di uscita pacifica e negoziata alla protesta di Gdeim Izik. «Come si possono infliggere sei anni di custodia cautelare a persone che sono innocenti agli occhi della legge? Non c’è flagranza di reato! Sono dei militanti sociali, alcuni sono funzionari. Erano gli interlocutori del wali di Laâyoune (l’equivalente del prefetto) nei momenti di crisi», ha ricordato.
Ostacolato l’accesso dei giornalisti ai territori occupati
Tenute fino ad oggi fuori dal processo, le famiglie dei gendarmi e degli elementi delle forze ausiliarie uccise nel corso degli scontri del 2010 sono oggi al centro dell’attenzione. Sono difese da avvocati legati, per lo più, a partiti politici espressione dell’establishment: Abdelkabir Tabih (USFP), Abdellatif Ouahbi (PAM), Abdellatif Ouammou (PPS) e Abdessamad Idrissi (PJD). Ufficialmente, gli scontri dell’8 novembre hanno provocato 13 morti, due de quali erano civili saharawi. Bilancio non verificabile: le autorità marocchine impediscono da allora l’accesso dei giornalisti e degli osservatori stranieri ai territori occupati. Quanto alla missione dell’ONU, la Minurso, tutti i tentativi di estenderne il mandato alla verifica del rispetto dei diritti umani hanno suscitato, fino ad oggi, aggressive crociate diplomatiche di Rabat, con l’appoggio di Parigi. «Lo smantellamento dell’accampamento di Gdeim Izik fu un momento di parossismo nella repressione di un vasto movimento pacifico per il diritto del popolo saharawi all’autodeterminazione», ricorda un osservatore spagnolo. Di qui il nervosismo che suscita la vicenda tra le autorità marocchine, determinate a far tacere tutte le voci discordanti sullo statuto dell’ex colonia spagnola annessa nel 1975. «In Marocco, la giustizia resta uno strumento di potere e di repressione, lamenta Khadija Riadhi, ex presidente dell’AMDH. Dal 1975, la questione del Sahara è sempre stata strumentalizzata a scopi repressivi e per inscenare un falso consenso. Molti marocchini sono stati arrestati per essersi pronunciati a favore del diritto dei Saharawi all’autodeterminazione».
Repiquet, fedele avvocato del Palazzo
Le famiglie degli agenti delle forze di sicurezza rimasti uccisi l’8 novembre 2010 a Gdeim Izik si sono, anch’esse, rivolte ad un avvocato francese lunedì: Yves Repiquet. Ex presidente del Consiglio dell’Ordine, ex presidente della Commissione nazionale consultiva per i diritti dell’uomo in Francia, noto per avere difeso Christine Lagarde nella vicenda Tapie, questo amico del Palazzo non ha mai remore a correre in soccorso del regno, quando si tratta di vicende sensibili.
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