Lettera (senza risposta) a Sergio Romano

Lo scorso 10 maggio, sul Corriere della Sera è apparso un reportage sul Marocco a firma di Sergio Romano, contenete molte sorprendenti affermazioni. Gli abbiamo scritto, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Pubblichiamo lettera e reportage.

Egregio ambasciatore Romano,
mi permetta di esprimerle la mia meraviglia per la tesi sostenuta nel suo reportage “Marocco, l’islam di Stato che combatte il fanatismo”, riassumibile-mi pare- nel seguente modo: il sistema politico marocchino ha affrontato con successo i problemi della modernità.
Credo lei sappia che in Marocco vota grosso modo il 20% della popolazione (in pratica solo i candidati e i loro “clienti”), perché tutto il potere (politico ed economico) è nella mani della famiglia reale (il makhzen) e conta poco vincere le elezioni, dal momento che il Re può nominare primo ministro e governo senza nessun vincolo di mandato. Forse le sfugge (perché il tema è del tutto trascurato dalla stampa internazionale) che gli uffici di polizia marocchina sono luoghi in cui si pratica sistematicamente la tortura (in questi giorni è uscita dal carcere, dopo due anni, Zahra Boudkour, una studentessa di 22 anni arrestata per una manifestazione all’Università di Marrakech e torturata e umiliata nei sotterranei del commissariato di piazza Jamal El Fna a Marrakech, costretta a stare nuda davanti ai suoi compagni nonostante le mestruazioni). E non è un caso isolato, come può testimoniarle Khadija Ryadi, presidente dell’AMDH, o El Ghalja Djmi, vice-presidente dell’ASVDH (sono a disposizione per fornirle ogni indirizzo che ritenesse utile). Saprà sicuramente che il Marocco occupa illegalmente il Sahara Occidentale e che reprime ogni manifestazione di dissenso, che sei militanti saharawi sono dai primi di ottobre in carcere a Salé in attesa di un processo dinanzi al tribunale militare per “tradimento”, solo perché non accettano di riconoscere l’occupazione illegale (dal punto di vista del diritto internazionale) del loro paese e perché rivendicano il diritto all’autodeterminazione riconosciuto loro da decine di risoluzioni dell’ONU.
Lei cita stranamente come un esempio positivo l’assoluta mancanza di libertà riconosciuta agli imam delle moschee, ai quali “il Consiglio superiore degli ulema – organismo governativo – invia le grandi linee e in qualche caso il testo integrale di ciò che dovranno dire dal pulpito”. Misura che sarà efficace per evitare la propaganda estremista (come d’altronde lo erano quelle del governo albanese di Enver Hoxha), ma non precisamente rispettosa della libertà di espressione.  E questo autoritarismo esasperato governa tutto l’ambito della libertà. E’vero – come lei ha affermato – che la stampa è libera di lanciare campagne per i diritti individuali, ma niente più di questo. Ahmed Benchemsi le avrà detto che il suo giornale (e anche Le Monde) sono stati sequestrati solo perché avevano osato pubblicare un sondaggio sul gradimento del Re, le avrà anche parlato della sorte del quotidiano Akhbar Al Youm, chiuso lo scorso anno per ordine “orale” del Ministro dell’Interno (il direttore, Taoufik Bouachrine, e il disegnatore Khalid Gueddar sono stati condannati a tre anni di prigione), solo per aver pubblicato una vignetta del principe Moulay Ismail. Anche El Pais è stato sequestrato perché aveva ripreso la medesima vignetta. E Le Journal Hebdomadaire, il più graffiante e libero giornale marocchino, costretto alla chiusura, approfittando di un suo indebitamento con l’erario.
E questo solo per citare i casi più eclatanti, perché mille sono le piccole repressioni. Cito solo ad esempio : 1)  Fouad Mourtada aveva pubblicato un falso profilo Facebook a nome di Moulay Rachid (il fratello del re). E’ stato condannato, dopo essere stato arrestato e torturato, a tre anni di carcere per “utilizzo di dati informatici falsificati e usurpazione di identità”, per essere poi graziato dal Re il 18 marzo 2008. 2) Mohamed Erradj aveva pubblicato, sul sito di informazione Hespress, un articolo critico nei confronti della politica sociale condotta da Mohammed VI. L’8 settembre 2008 Erradj si è visto infliggere una condanna a due anni di carcere per “mancanza di rispetto nei confronti del re”. 4) Bachir Hazzam e Abdallah Boukfou sono stati condannati rispettivamente a quattro mesi e un anno di prigione il 15 dicembre 2009, dopo aver pubblicato delle informazioni su di un blog a proposito della repressione in corso a Taghjijt.
Lei afferma ancora che “gli omosessuali hanno qualche possibilità di alzare la voce” e si riferisce probabilmente alla associazione Kif Kif che, con grande cautela, cerca di aprire un dibattito sulla condizione dei gay. Le ricordo però che, quando il 19 novembre 2007, un centinaio di fanatici assalirono a Ksar El Kébir le abitazioni di alcuni sfortunati accusati di aver partecipato ad un festino gay, la polizia ha arrestato gli assaliti e non gli assalitori e sono stati i primi ad essere condannati dal Tribunale. Se considera che in Marocco non esiste alcuna autonomia della magistratura dal potere politico, quindi dal Palazzo, capirà bene che la sua affermazione risulta forse eccessivamente ottimistica.
La realtà del Marocco è quella, piuttosto, di una società civile vivace, tenuta al guinzaglio dal governo e della polizia. E di un governo abilissimo nella propaganda di una falsa democratizzazione e di apparenti progressi nel rispetto dei diritti dell’uomo.
La ringrazio per l’attenzione
Nicola Quatrano, presidente di Osservatorio Internazionale (www.ossin.org)



Corriere della Sera, 10 maggio 2010

Marocco, l’islam di Stato che combatte il fanatismo


di Sergio Romano

Un velo di ambiguità fa coesistere religione e riforme

Casablanca – La moschea Hassan II (dal nome del padre dell’attuale sovrano) sorge a Casablanca sulle rive dell’Atlantico. Fu progettata da un architetto francese, Michel Pinseau, e inaugurata nel 1993 quando Hassan era ancora vivo e regnante. Si compone di due grandi edifici (la moschea e il minareto da un lato, la mediateca e le istituzioni culturali dall’altro) separati da un’enorme Plaza che si affaccia come una grande terrazza sulle onde dell’oceano. Il minareto (172 metri) è anche un faro che lancia una lama di luce verso la Mecca. L’interno della moschea può ospitare 20.000 fedeli, ma l’intero spazio (90.000 metri quadrati) può accoglierne complessivamente 80.000. E’ un inno all’islam, alla sua potenza, all’identità religiosa del popolo marocchino e all’uomo che ne ordinò la costruzione. Ma è anche il simbolo di una straordinaria ambivalenza e, secondo qualche osservatore, di una geniale ipocrisia.
Per Hassan II l’islam fu anzitutto uno strumento politico. Per tenere a bada la sinistra e unire il paese sotto la sua guida, il re fece della religione il tratto distintivo della nazione e assunse per sé il titolo di “comandante dei credenti”. Non era meno laico o più devoto di quanto fosse stato negli anni in cui attendeva l’indipendenza e il trono.
Era semplicemente convinto che il suo giovane regno, nato dal protettorato francese e dal lungo Medio Evo dei sultani alaouiti, avesse bisogno, per consolidarsi e durare, di una legittimità religiosa. Ma non aveva alcuna intenzione di cedere una parte del suo potere agli imam (i ministri del culto) e agli ulema (i dottorid ella fede): per meglio inquadrarli creò un Consiglio superiore degli ulema, affiancato da alcuni consigli regionali, e conferì a se stesso il compito di guidarlo. Fece nell’ambito del mondo mussulmano, in altre parole, un’operazione simile a quella realizzata da Pietro il Grande quando lo zar abolì il Patriarcato e costituì il Sinodo della Chiesa ortodossa. Nacque così uno Stato islamico in cui il re poteva ottenere che le sue riforme, spesso laiche, venissero approvate dal clero nazionale.
Tutto andò per il meglio sino all’11 settembre quando il Marocco dovette fare i conti con un islam molto più radicale e violento di quello che Hassan, morto nel luglio 1999, aveva affrontato negli anni precedenti, La lunga guerra civile algerina aveva allevato parecchi estremisti ed esisteva ormai, a cavallo tra Algeria e Marocco,  un Gruppo salafista per la preghiera e il combattimento che sarebbe divenuto più tardi AlQaeda nel Maghreb. La guerra cominciò a Casablanca il 16 maggio 2003 con una serie di attentati suicidi che provocarono la morte di 45 persone (12 terroristi e 33 civili) ed è proseguita da allora con sporadici attentati e lo smantellamento di una cellula terroristica nelle scorse settimane. Di questi avvenimenti e del modo in cui Maometto VI, figlio di Hassan, ha reagito alla minaccia, ho parlato a lungo con la giovane presidente della Commissione Difesa, Affari esteri e Affari islamici della Camera dei deputati.
  Mbarka Bouaida è nata nel Sahara spagnolo, non ha ancora quarant’anni, appartiene al Rassemblement National des indépendants e, se debbo giudicare dalla qualità della sua analisi, e dalla vivacità delle sue reazioni, farà strada. Quando le chiedo quali siano le competenze della Camera nelle questioni del culto, mi segnala un dibattito recente sulla manutenzione delle  moschee e aggiunge subito che il problema è politico. Nel mondo islamico ogni generoso benefattore può finanziare la costruzione di una moschea e divenirne il proprietario protettore. Questa antica consuetudine si presta a infiltrazioni e manipolazioni di AlQaeda o dei gruppi sciiti affiliati a Teheran che il governo è deciso a evitare. Dopo gli attentati del 2003, il Consiglio superiore ha quindi accentuato il controllo sui circuiti religiosi e rafforzato l’inquadramento del clero. Per sottrarlo a influenze esterne è stato deciso di assegnare all’imam una congrua (come si chiamava in altri tempi il salario del prete), di dargli una carta della previdenza sociale, di impartirgli lezioni di lingue e diritto civile, di conferirgli uno statuto pubblico che assomiglia a quello dei funzionari dello Stato. Non basta. Per evitare che le preghiere del venerdì diventino una occasione per infuocati inviti alla guerra santa, il Consiglio superiore degli ulema invia alle moschee le grandi linee e in qualche caso il testo integrale di ciò che gli imam dovranno dire dal pulpito. E infine, per estendere l’influenza del governo alla diaspora dei marocchini in Europa, è stato istituito un consiglio degli ulema per gli emigrati. La conversazione cade sui 400.000 marocchini che vivono in Italia, sulla costruzione della moschea di Torino (dove sono 30.000) e sui corsi di formazione degli imam proposti dal Coreis, l’associazione dei mussulmani italiani. Ne approfitto per dire a Mbarka Bouaida che il nuovo Consiglio farebbe bene a occuparsi anche degli imam in Italia, soprattutto se aiutati finanziariamente dal Marocco. Non tutti, purtroppo, hanno studiato le lingue, il diritto civile e la costituzione italiana.
Il Marocco, quindi, è uno Stato islamico il cui maggiore organo religioso serve a contrastare il fondamentalismo e ad avallare riforme, come quella del diritto di famiglia, che hanno una ispirazione laica. E’ un paese dove la stampa è libera di lanciare campagne per i diritti individuali e gli omosessuali hanno qualche possibilità di alzare la voce. E’ una meta turistica dove nessun imam può impedire a una donna di indossare il più succinto dei bikini o ai cristiani di professare la loro fede (vi sono tre chiese cattoliche a Rabat, capitale del Regno). Lo Stato si proclama musulmano, ma Ahmed Toufik, ministro del culto, ha detto recentemente al quotidiano La VieEco che la fatwa (una opinione religiosa con valore legale) non può concernere una materia già regolata dalla legge: un modo per affermare, ad esempio, che nessun imam, dopo il nuovo codice di famiglia, può impedire a una donna di sposarsi anche contro la volontà dei genitori.
Secondo Ahmed R. Benchemsi, direttore della rivista TelQuel, redatta in francese, e di una sorella araba chiamata Nichane, questa convivenza di culture diverse ha per effetto una intollerabile dose di ambiguità e ipocrisia. Benchemsi si dichiara agnostico e la sua rivista è esplicitamente, polemicamente laica. Durante una conversazione a Casablanca nella redazione del suo piccolo gruppo editoriale, mi dà alcuni esempi. I negozi di alcolici espongono un’ordinanza che ne vieta la vendita ai musulmani, ma nessun commerciante o barista chiede conto al cliente della sua fede religiosa. Il digiuno del ramadan comincia all’alba e finisce al tramonto, ma negli uffici gli impiegati si nascondono, per bere il caffè, nello stanzino delle fotocopie. E le ragazze sono ufficialmente vergini, al momento del matrimonio, ma la ricostruzione dell’imene è diventata  uno “sport nazionale”. Per Benchemsi queste contraddizioni creano una mentalità ipocrita o, peggio, una menzogna permanente che nuoce al carattere e alla psicologia dei marocchini. E’ possibile che abbia ragione. Ma questa ipocrisia ha permesso al Marocco di affrontare con successo i problemi della modernità senza le rotture sociali e civili che hanno afflitto altri paesi della regione, dall’Algeria della guerra civile all’Egitto dei Fratelli musulmani. In un mondo in cui moltissimi sistemi politici hanno fallito, quello del Marocco ha già superato parecchie prove. Ne parlerò in un prossimo articolo.


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