Cose viste in Palestina : un atto di accusa
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Revue de presse : Palestine Journal, 25 aprile 2013 (trad. Ossin)
Cose viste in Palestina : un atto di accusa
George Meek (*)
Sono ritornato dalla Palestina con parecchie impressioni indelebili nel mio animo, dopo un viaggio effettuato di recente per il Ecumenical Accompaniment Program in Palestine and Israel (Programma di Accompagnamento Ecumenico in Palestina e Israele) del Consiglio Mondiale delle Chiese
Scenario: Mettetevi al posto di una famiglia palestinese: le autorità israeliane non vi daranno mai il permesso di allargare la vostra casa per la vostra famiglia che cresce. E se comunque l’ingrandite perché non avete alternative e anche se spendete molti soldi in avvocati per difendervi nei processi, un giorno, mentre i vostri figli sono a scuola, verranno dei poliziotti e dei soldati con un enorme bulldozer per distruggere la vostra abitazione.
Noi siamo stati testimoni della distruzione della casa della famiglia Kastero a Beit Hanina, a nord di Gerusalemme, che ha lasciato in strada 45 persone. I bambini sono tornati dalla scuola piangendo e urlando, traumatizzati dalla visione della demolizione in corso. La famiglia aveva investito le economie di tutta una vita in quella abitazione e non aveva i soldi per trovarne un’altra. Dopo un mese siamo andati a visitare questa famiglia, che adesso viveva in tende e in un container vicino alle macerie della loro casa. E non crediate che sia un caso isolato… Le Nazioni Unite calcolano che un alloggio su tre a Gerusalemme est è stato costruito senza permesso, e ciò vuol dire che 93.000 persone sono a rischio di espulsione dal loro domicilio.
Altro scenario: immaginate che vostro marito soffra di problemi cardiaci e che sia autista di taxi. Un giorno si trova in mezzo a uno scontro tra soldati israeliani e dei giovani che lanciano pietre. I soldati lanciano una granata lacrimogena sul suo taxi, lui si accascia e il suo cuore smette di battere per qualche minuto. Viene trasportato in coma all’ospedale e muore qualche settimana dopo. E’ quello che è successo a Moyad Ghazawneh, di Ar Ram.
Aveva due figlie, una delle quali non ha mai potuto conoscere perché è nata il giorno dopo la sua morte. La sua famiglia adesso tenta di agire in giudizio contro il governo israeliano per omicidio colposo, ma le associazioni di difesa dei diritti dell’uomo pensano che non vi siano molte speranze di ottenere qualcosa. B’Tselem (Centro israeliano di informazione per i diritti dell’uomo nei territori occupati) segnala che, da gennaio 2009 a ottobre 2012, 326 Palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza ebraiche, di fronte a 5 elementi di queste forze di sicurezza e 15 civili uccisi da Palestinesi.
Ora immaginate che vostro marito, operaio edile, intervenga per proteggere delle persone dalle violenze di alcuni coloni israeliani che le hanno aggredite in una casa isolata. Non getta pietre, non fa gesti ostili, ma un colono gli spara un proiettile dum-dum nell’addome. Operato, subisce una parziale asportazione del fegato. Ho incontrato Hilme Abdul Azziz Hassan due settimane dopo a casa sua, a Qusra. Si va rimettendo, ma non è ancora abbastanza in forze per tornare al lavoro.
Siccome ero alloggiato a Gerusalemme est, non ho avuto occasione di essere testimone del grado di violenza perpetrato dai coloni israeliani nelle zone rurali, come è capitato invece agli altri partecipanti del Programma Ecumenico: botte, furti, avvelenamento dei montoni e distruzione di olivi…
In un altro quartiere di Gerusalemme, Cheikh Jarrah, diverse famiglie di rifugiati hanno perso la loro casa perché si trovava vicino alle colonie, e altri stanno per essere espulsi. La parte anteriore della casa di Nabeel al-Kurd è occupata da quattro anni da alcuni coloni, mentre lui l’aveva ingrandita per la sua famiglia. Ma non ha mai potuto viverci, perché i Tribunali l’hanno sequestrata…
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli Affari umanitari, vi sono 532 luoghi inaccessibili ai Palestinesi a causa di checkpoint, barriere, cancelli, scarpate e fossati. Senza dimenticare i checkpoint della Linea verde.
Queste barriere e chiusure impediscono la circolazione di operai, contadini e studenti palestinesi. Al checkpoint di At Tayba, vicino a Tukeram, in tre ore, ho visto più di 3500 operai palestinesi, ammassati come bestie in gabbie, che aspettavano di poter andare a lavorare in Israele. Molti erano furiosi e frustrati. Alcuni erano rassegnati, mano a mano che la fila si assottigliava, si rendevano conto che la estrema lentezza delle procedure non avrebbe loro consentito di andare al lavoro. Uno di loro mi ha detto che l’attesa era troppo lunga perché il bus del suo datore di lavoro sarebbe partito alle 6,15 e non lo avrebbe atteso. Se ne è tornato a casa.
Nella regione di Tukarem, i contadini hanno una sola via di accesso limitata ai loro campi, una mezza dozzina di cancelli sbarra loro la strada. Devono chiedere l’autorizzazione alle autorità palestinesi e israeliane e attendere da una settimana fino, talvolta, a un mese per ottenerla. Io sono andato davanti a uno di questi cancelli che si apre solo per 45 minuti, tre volte al giorno: la mattina, a mezzogiorno e il pomeriggio. Se un contadino è in ritardo, non può più passare. Uno mi ha detto che il cancello non consente il passaggio del suo trattore, a bordo del quale era solito recarsi nei suoi oliveti e nei suoi campi di mandorle. Adesso deve andarci a dorso d’asino.
Nella stessa regione, gli abitanti del villaggio di Kafr Qaddum non possono usare la strada principale, che è stata dichiarata “fuori perimetro” a protezione dei coloni. Dal 2004 il blocco di questa strada è totale. Costringe i Palestinesi a percorrere più di 10 chilometri al posto di uno solo, per raggiungere la strada principale. Tutti i venerdì, dal 2011, si svolgono manifestazioni per protestare contro questa misura. E sono brutalmente represse.
I bambini delle comunità beduine hanno i loro propri problemi di circolazione. Vicino a Jaba, circondata da colonie, i bambini devono arrampicarsi lungo un canale di scolo, al di sotto di una autostrada molto trafficata, poi inerpicarsi su dei massi e scivolare in un tunnel stretto, nel quale possono esservi dei serpenti o carcasse di montoni. Quando piove arrivano al lavoro tutti infangati e il padrone li rimanda indietro. L’Autorità Palestinese dice che non ha i soldi per comprare un bus.
(*) George Meek è un giornalista statunitense in pensione. Quest’anno è stato tre mesi in Palestina /Israele con 31 volontari internazionali per il Programma Ecumenico