In questo contesto la Cina si trova in una situazione di estremo imbarazzo. Da un lato ha agganciato il treno dello sviluppo e dell’industrializzazione (ma anche della speculazione), mentre dall’altro le campagne e il territorio subiscono le conseguenze del riscaldamento globale.
Da un lato può vantare di non avere responsabilità storiche nell’ambito dell’inquinamento atmosferico a differenza dei paesi di vecchia industrializzazione, ma dall’altro è il paese che in prospettiva contribuirà maggiormente a questo fenomeno.
Il suo inquinamento procapite è bassissimo, contribuisce per 1/5 rispetto alla media dei paesi OCSE e per 4/5 rispetto alla media mondiale. Secondo questa media un cittadino statunitense inquina 5 volte di più di un cinese, essendo però una media aritmetica il valore non ci permette di osservare un dato più eloquente, cioè che un cittadino statunitense consuma, effettivamente, 20 volte l’energia di un cinese. In questa condizione la Cina sembrerebbe essere in una posizione di netto vantaggio nelle trattative ambientali in ambito internazionale (un Cinese dovrebbe avere meno “doveri ambientali” di uno Statunitense), invece è comunemente considerata uno dei maggiori paesi inquinanti al mondo. Il motivo sta nel fatto che i cinesi sono un miliardo e trecento milioni, quindi il dato complessivo del contributo della Cina all’inquinamento è enorme: entro il 2009 supererà gli Stati Uniti non per PIL, ma per emissioni di gas serra.


Il “salto della rana”

A differenza del giornalismo volgare, non tratteremo la Cina come un monolite partitocentrico privo di dibattito. Innanzitutto c’è da dire che dal 1990 a questa parte, benché pochi se ne siano resi conto, è avvenuto un interessante fenomeno che i teorici dello sviluppo e dell’economia politica avevano già individuato in occasione del processo di industrializzazione dell’Italia, della Germania e del Giappone. Questi paesi compirono ciò che sarà definito poi un “salto della rana”. Bisogna premettere che i paesi in via di industrializzazione presentano un altissimo tasso di spreco energetico, definito “intensità energetica”. L’intensità energetica rappresenta la quantità di energia finale consumata (tep – tonnellata di petrolio equivalente) per la produzione di un’unità di prodotto interno lordo (1000$). Generalmente un paese, arrivato a un determinato grado di industrializzazione (e di spreco energetico), vede calare progressivamente la propria intensità energetica, questo processo è indice di maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse. Un paese (Germania) compie un “salto della rana” nel momento in cui riduce i tempi di tale processo rispetto all’esperienza del paese che l’ha preceduto sulla strada dell’industrializzazione (Inghilterra). La Germania, l’Italia e il Giappone raggiunsero il grado di efficienza energetica dell’Inghilterra e degli USA in un periodo relativamente breve rispetto al lasso di tempo impiegato da queste due. Anche la Cina sta compiendo un “salto della rana”, infatti dal 1990 al 2005 la sua intensità energetica è scesa al ritmo del 4% l’anno. Tuttavia il processo è ancora in corso per cui in termini assoluti lo spreco cinese è ancora maggiore dello spreco tedesco o statunitense.

 

Scontro interno

Quando abbiamo detto che la Cina non è un monolite intendevamo che è in corso un aspro dibattito all’interno del Partito Comunista Cinese e del paese. Da un lato c’è lo schieramento di Hu Jintao (Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Segretario del PCC, Presidente della Commissione militare), Wen Jiabao (Primo Ministro nel Consiglio degli Affari di Stato), la Lega giovanile comunista (principale bacino di sostegno del Presidente) e i neomaoisti, dall’altro c’è l’ex presidente Jiang Zemin, i dirigenti delle province costiere e gli imprenditori. Il campo di battaglia è il XVII Congresso del PCC che si terrà in autunno, ma la battaglia è già cominciata da tempo (vedi la destituzione del segretario del Partito di Shanghai sostenitore dell’ex presidente). Lo scontro non si riduce ad una “corsa per la poltrona”, è più ampio e riguarda il futuro della Cina. Si tratta di decidere se la Cina debba continuare con il processo di sviluppo sfrenato, tesi sostenuta da Jiang Zemin e dalle province costiere (in particolare il Guandong la cui classe dirigente si può definire ormai definitivamente “compradorizzata”) o se debba frenare lo sviluppo e la speculazione e riorientare le risorse verso l’interno e verso la riduzione delle disuguaglianze, tesi sostenuta dal Presidente Hu Jintao.
Tutto ciò è strettamente connesso alle questioni ambientali, infatti il motivo del crescente inquinamento cinese è anche dovuto alla costante carenza energetica che obbliga il governo a costruire il più rapidamente possibile le economiche centrali a carbone. Ridurre il tasso di crescita del PIL significherebbe quindi anche fare fronte alle frequenti emergenze energetiche.

 

Il rush finale prima della battaglia

L’autunno caldo che si preannuncia è stato preceduto da un’intensificazione delle attività proambiente da parte dei massimi dirigenti del governo cinese (fedeli all’attuale presidente).
Nel 2005 si è svolta la Conferenza sulle energie rinnovabili di Pechino (BIREC); è stata varata la Legge sulle energie rinnovabili che stabilisce di aumentare significativamente le quote di energia alternativa e rinnovabile entro il 2020 (tra cui 40 nuove centrali nucleari); è nato un gruppo guida per l’energia all’interno del Consiglio degli Affari di Stato.
Nel 2006 è stato pubblicato il Libro bianco sulla protezione ambientale; l’11 Ottobre 2006 si è concluso il sesto Plenum del Comitato Centrale che conferma il progetto di uno sviluppo coordinato e razionale; a cavallo tra il 2005 e il 2006 è stato votato dall’Assemblea nazionale del Popolo l’XI Piano quinquennale che si propone di limitare la crescita al 7,5%, di ridurre l’intensità energetica del 20% e di ampliare l’utilizzo di fonti rinnovabili.
Nel 2007 è stato pubblicato il National Climate Change Assesment Report che svela un quadro inquietante sui prossimi scenari ambientali; il 4 Giugno 2007 è stato pubblicato il China National Climate Change Program che consiste in un programma riguardante diversi ambiti (giuridici, economici ecc.) per affrontare la questione ambientale.

 

Conclusione

La Globalizzazione obbliga tutti i paesi e soprattutto quelli poveri a delle scelte infelici. L’idea che la Cina stia compiendo una transizione al liberismo è sbagliata tanto quanto quella della transizione al socialismo. La realtà è molto più banale: nel 1979 il paese, isolato internazionalmente (i rapporti con l’URSS erano pessimi), doveva svilupparsi e aveva bisogno dell’Occidente. Così la dirigenza ha deciso di accedere a quella che sarà poi definita “Globalizzazione”, ma coscienti della reale natura di tale fenomeno non vi hanno mai aderito completamente, così da non anteporre gli interessi delle multinazionali a quelli dello sviluppo interno. Tuttavia la complessità dello sviluppo e i compromessi con la Triade (Stati Uniti, Europa Occidentale, Giappone) per la svendita di una parte delle proprie risorse nazionali (condizione essenziale per accedere ai mercati occidentali) hanno portato ad una situazione che si può definire “lotta di classe” interna. Lo scontro, come già accennato, è tra coloro che, già arricchiti (province costiere), vogliono procedere sulla strada del liberismo sfrenato e coloro che puntano ad una redistribuzione della ricchezza (province occidentali e potere centrale). Che il fronte di Hu Jintao, per la redistribuzione, sia così ampio è simbolo della centralità del problema. Tuttavia le masse popolari sono ancora escluse da questo processo...eppure potrebbero dare un forte sostegno al governo in questa lotta contro le province ricche.
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