Che cos'è il sufismo
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Le schede di ossin, 27 novembre 2017 - Un gran numero di attentati islamisti ha preso a bersaglio i luoghi di culto sufi - da ultimo, quello alla moschea di Bir al-Abed, in Egitto, che ha provocato oltre 300 morti. Ma che cosa è il sufismo? E perché è inviso ai salafiti-wahhabiti? (nella foto, dervisci roteanti)
Che cos'è il sufismo
di Julie Descarpentrie
In tempi di minacce jihadiste e di strumentalizzazione dell'islam da parte dei fondamentalisti, molti responsabili politici come Mohammed VI, A. Bouteflika o il Primo ministro indiano Narendra Modi, tentano di promuovere il sufismo (1) per mettere in campo un'alternativa al salafo-wahhabismo che, fin dalla creazione della Lega Islamica Mondiale, fa grande proselitismo in tutto il mondo. Così, mentre i salafiti contemporanei invocano l'uccisione dei miscredenti (kafir) e si richiamano a Ibn Tammiyya, a Abd el-Wahhab o a Sayyid Qutb, i sufi invece costituiscono una minoranza discreta che tende a veicolare dei valori di pace e d'amore, attraverso gli scritti di autori come Ibn Arabi.
Considerato uno dei principali fondatori dell'esoterismo islamico, questo gnostico arabo-andaluso del XII secolo (nell'immagine a destra è riprodotto un ritratto di fantasia) è autore di numerosi poemi che predicano l'amore verso dio e verso l'umanità intera. E' per questo che, ritenendo che gli esseri umani siano anime divine e che ciascuna religione costituisca uno degli aspetti dell'Unicità divina, i sufi invitano alla tolleranza religiosa, almeno a giudicare dai versi seguenti: « Io professo la religione dell'Amore, e qualsiasi sia la direzione che prende il suo cavallo, l'Amore è la mia religione e la mia fede ». (2) « Che la tua anima sia l'essenza di tutte le credenze, perché dio è troppo vasto e troppo immenso per potere essere rinchiuso in un credo, escludendo gli altri ». (3)
Purtroppo l'intervento dei leader a favore di questo ramo dell'islam è lungi dall'essere unanimemente condiviso e i sufi costituiscono uno dei bersagli privilegiati dei sunniti ortodossi e degli jihadisti tafkir giacché, per quanto siano sunniti, le loro pratiche eterodosse sono accusate di essere innovazioni (bid’ah). In proposito, deve osservarsi che i sufi praticano un islam che, sotto certi aspetti, assomiglia al ritualismo indù. Perché il sufismo non si limita alla lettura dei testi fondatori, viene praticato sotto la direzione di un maestro i cui insegnamenti mirano a far sentire l'amore del Profeta e a fondersi in lui, nell' UNO (4). Quindi la vita del praticante non si esaurisce nella semplice osservanza dei cinque pilastri dell'islam. Oltre all'aspetto esoterico e trascendentale, infatti, il devoto rispetta anche il culto dei santi, fa ricorso a canti e danze quasi estatiche, effettua pellegrinaggi alle tombe dei santi sufi e riserva un amore certo al suo maestro che ha il titolo di sceicco. Quest'ultimo viene infatti considerato come un intercessore tra il Profeta e i suoi discepoli, ed è dunque messo alla gogna dai sunniti ortodossi e soprattutto dai wahhabiti che vedono in lui – ma anche negli imam sciiti – un usurpatore e una espressione di politeismo (shirk). 5
A ciò si aggiunge che la lettura esoterica dei versetti del Corano fatta dai sufi entra in contraddizione con una visione esclusivamente basata sull'essoterismo e l'interpretazione giuridica dei testi sacri praticata dai teologi. E occorre anche dire che la teoria secondo cui esistono due possibili letture del Corano, una esoterica e l'altra essoterica, richiama maggiormente la tradizione persiana in quanto, secondo gli sciiti, è stato al futuro califfo Abu Bakr, e al genero Ali, che il Profeta avrebbe trasmesso le chiavi per comprendere quello che resta nascosto e mistico (bâtin). I sunniti ortodossi, al contrario, tendono a minimizzare questo aspetto, privilegiando un approccio più letterale e giuridico. Considerato essoterico, questo approccio non gode di particolare credito presso i sufi, che non lo considerano in grado di promuovere l'amore per il divino in quanto, secondo loro, anteporre il fiqh (la giurisprudenza islamica, ndt) agli slanci mistici non consente di realizzarsi spiritualmente e può solo condurre all'idolatria e all'intolleranza.
D’altra parte, a cagione della loro pratica dell'ascetismo, i sufi sono accusati di essere eredi del monismo giudaico-cristiano, tuttavia vietato dall'islam. In proposito, è da notare che la parola « sufi » significherebbe secondo alcuni « abito di lana », con riferimento al vestito portato dai primi compagni del Profeta, ma anche dal Cristo, e la cosa può indurre in confusione. Giacché la lana è il simbolo dell'indigenza e della semplicità, non stupisce che i due termini « fakir/faqr » e « derviscio », impiegati per designare gli asceti sufiti, facciano entrambi riferimento all'indigenza e alla povertà. Nondimeno questa eccessiva prossimità semantica tra l'indigenza predicata dai primi cristiani e i sufi è fonte di vive tensioni, anche se nei fatti i sufi non sono degli asceti, giacché la “rinuncia” (zuhd) era una corrente che ha preceduto storicamente il sufismo.
Infatti il tasawwuf (altro nome del sufismo) si basa, dal XI e XII secolo, su di un corpo dottrinale del quale Ghazali è uno dei maitre a penser e la cui opera filosofica tende a conciliare l'eredità neo-platonica di Al-Ma’mun e di Averroè (nell'immagine a sinistra raffigurato in un particolare del Trionfo di San Tommaso di Andrea di Bonaiuto), con una pratica sufi incorporata nell'ortodossia sunnita (6). Fin da allora, i sufi non contestano il principio della sharia e si propongono di conciliare ciò che è proprio del quietismo con quello che è proprio della vita politica – anche se è vero che molti di loro pensano che fare il grande jihad (lottare contro il proprio ego/naf) sia molto più importante del fare il piccolo jihad (dichiarare guerra ai nemici). Nondimeno occorre insistere sul fatto che, contrariamente ad un'idea molto diffusa in occidente, il ramo mistico dell’islam sunnita si è più volte distinto nella pratica guerriera del jihad.
Contemplativi impegnati nel mondo
Formatosi intorno al IX secolo d.C., il sufismo ha contribuito alla diffusione dell'islam nel mondo, sia attraverso la dawa (proselitismo religioso) che il jihad armato. Dunque non deve stupire che, verso il XI secolo, quando lo sciismo cominciò a rappresentare un pericolo per l'islam sunnita, la maggior parte degli ordini sufi si siano coalizzati per aiutare i regimi sunniti a lottare contro i nemici sciiti. Attualmente, benché frequentemente coperti di improperi da entrambi i rami dell'islam, i sufi restano comunque una forza politica alternativa molto interessante, giacché il loro rifiuto di integrarsi pienamente in un sistema partigiano ha fatto sì che costituissero risorse di riserva, quando i partiti al potere venivano rovesciati. Si osserva infatti che la caduta di Baghdad nel 1258, seguita dall'annientamento dell'impero abbaside ad opera dei Mongoli, determinò un rafforzamento dell'autorità degli sceicchi sufi, a scapito delle strutture sunnite tradizionali. Lo stesso quando i membri della confraternita naqshbandi si diedero per missione di colmare il vuoto politico lasciato dai Timuridi, rovesciati dai discendenti di Gengis Khan nel XVI secolo. Ciò spiega come mai la dinastia sefevida, che è succeduta, fosse principalmente composta da militanti sufiti di origine curda. (7)
Si nota nondimeno che la grande autonomia accordata dalle istanze politiche ai sufi e alle loro strutture religiose, chiamate zawiyas, è segno in realtà di una sorta di disprezzo nei loro confronti, giacché si riteneva che il sufismo, considerato retrogrado e oscurantista, si sarebbe estinto da se stesso nello scorrere dei secoli. Deve quindi constarsi che, oltre al Marocco e all'Egitto, pochi paesi hanno accettato di dare una certa visibilità istituzionale alle differenti confraternite (tariqa), attraverso una centralizzazione delle istituzioni militari e religiose sufi (ribat) o l'inserimento degli esponenti religiosi nei partiti politici al governo. Questo stato di cose dipende essenzialmente dal desiderio dei sufi stessi di restare appartati rispetto al potere e al mondo materiale, cosa che più volte è valsa loro l'accusa, rivolta loro da islamisti come il Fratello mussulmano indiano, Sayyid Abul Ala Maududi, di essere la causa del declino dell'islam nel mondo. Considerato poi che i sufi predicano la non violenza e promuovono una pratica contemplativa dell'islam che si contrappone del tutto ai valori virili della religione, molti fondamentalisti sono giunti a divulgare l'idea che i mistici sono dei traditori. Tanto più che, secondo loro, l'ascetismo, associato al rifiuto di alcuni sufi di procreare, ostacolerebbe l'espansione dell' umma (comunità mussulmana, ndt).
La modernità, però, non è riuscita a far sparire la branca mistica dell'islam sunnita e anche il neo-sufismo (8) ha giocato un ruolo importante nella lotta contro la colonizzazione e la secolarizzazione degli Stati. E' stato così con teocrazie come quella della Mauritania, col califfato di Sokoto (oggi la Nigeria del Nord) e con l'impero islamico Toucouleur (oggi Guinea, Senegal e Mali), tutti fondati da leader sufi che volevano preservare l'Africa dell'Ovest dal secolarismo. In Algeria e in Libia, l’emiro Abd el-Kader, appartenente al ramo qadiriyya (nell'immagine a sinistra), oltre che i membri della famiglia reale Senussi, rappresentano figure importanti del sufismo e del nazionalismo arabo. Si sottolinea peraltro che, di fronte alle incursioni francesi in Algeria tra il 1832 e il 1847, Abd el-Kader giunse a trasmutare il jihad minore in jihad maggiore, in una specie di « conquista mistica » che gli sarebbe stata rivelata nel corso dei suoi frequenti stati di estasi. Secondo il maresciallo Bugeaud, fu proprio durante la prigionia ch'egli prese coscienza di essere investito di una missione, vale a dire distillare la spiritualità islamica in Francia assicurando nel contempo all'Algeria il savoir faire francese in materia di tecnologia. Da questo compromesso, nacque il suo interesse per la modernità e per la Francia. I Senussi, poi, sono eroi del nazionalismo libico in quanto, dopo i successi riportati contro le truppe francesi in Ciad (intorno al 1900), fu a loro che si rivolsero le tribù della Cirenaica per respingere gli Italiani e unificare la Libia. Meglio organizzati e coordinati delle tribù locali, i sufi Senussi sono stati garanti dell'unità nazionale, e ciò valse a questa confraternita la guida del paese fino al colpo di Stato di Gheddafi nel 1969.
Tuttavia, per quanto si siano distinti nella lotta contro i colonizzatori europei, si sottolinea che il jihad dei sufi ha avuto raramente caratteri offensivi, perché si trattava prima di tutto per loro di preservare il loro territorio e la loro identità, senza fare del jihad minore e della brutalità guerriera un obiettivo in sé. Per questo il loro jihad è più simile a un jihad difensivo che comprende in sé ciò che si potrebbe definire lo jus in bello e lo jus ad bellum (9). Ciò spiega perché, nel XIX secolo, a causa del loro rifiuto di sterminare i colonizzatori, molti di loro siano stati tacciati di pacifismo e perché le teocrazie sufi che furono incorporate nei regimi coloniali, lo siano state senza che gli stessi sufi abbiano opposto una reale resistenza. Tuttavia, il compromesso tra ciò che è attacco offensivo e difensivo, non deve occultare il fatto che, paradossalmente, i fondamentalisti di oggi sono in parte gli eredi dei primi islamisti sufi indiani, il cui atto di nascita risale al XVI secolo.
Alle origini dei primi movimenti revivalisti: i fondamentalisti Ahmad Sirhindi e Shah Waliullah
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la difesa del territorio nazionale non è la sola causa dell'impegno dei sufi nel jihad difensivo, per quanto sia comunemente ritenuto che la colonizzazione europea abbia costituito una delle cause più importanti della radicalizzazione dei mussulmani. Infatti c'è da dire che fu proprio per reazione alla eccessiva tolleranza predicata dall'imperatore mongolo Akbar che comparvero nell'India del XVI secolo i primi fondamentalisti sufi come Ahmad Sirhindi e Shah Walihulla; due fonti di ispirazione importantissime per gli islamisti sud-asiatici. Avendo contribuito massimamente al dialogo inter-religioso, Akbar il Grande (nell'immagine a destra) è sempre stato esaltato per la grande tolleranza dimostrata nei confronti delle diverse confessioni presenti nella società mongola del tempo. Volendo superare l'idea che l'islam fosse una religione superiore alle altre, e convinto che occorresse attribuire lo statuto di dhimmi (cittadino) ai non mussulmani, incoraggiava i credenti a non seguire ciecamente i precetti religiosi che erano stati loro inculcati dalla nascita, affinché il libero arbitrio prevalesse sul determinismo religioso. Una simile apertura di spirito spiega perché Akbar abbia voluto studiare i testi di Ibn Arabi e abbia optato per il sufismo, invece di restare fedele all'islam hanafita dei suoi genitori. Era tale la sua tolleranza, che prese in moglie una mussulmana, una indù ed una cristiana, per promuovere il sincretismo religioso. Però, quando tentò di abolire la jizya (10) e di riconciliare sunniti e sciiti, apparvero dei reazionari particolarmente virulenti che videro in detta tolleranza una dimostrazione del declino dell'islam. Questo mentre all'epoca l'impero non era minacciato, perché l'imperatore era riuscito ad allacciare alleanze con la maggior parte dei suoi vicini. E' sorprendente quindi constatare che fu proprio con l'apparire dei primi islamisti, come Aurangzeb (11), Sarhindi e Waliullah, che l'impero cominciò ad andare in crisi e fu allora che gli Inglesi, approfittando della sua debolezza, invasero il paese.
Di conseguenza, la teoria secondo cui si ricorre al jihad solo quando un nemico minacci l’umma potrebbe non essere fondata, salvo a ritenere che il nemico possa essere anche interno, e anche se abbia operato per instaurare un eccessivo lassismo inter-comunitario, tale da rendere impossibile l'applicazione della sharia – esattamente quello che denunciavano i religiosi citati che vedevano negli sciiti, negli indu e nei sufi degli infrequentabili eretici. Essendo, però, essi stessi sufi del ramo naqshbandi, fu soprattutto agli scritti di Ibn Taymiyya, e solo successivamente a quelli di Abd el Wahhab, che questi primi revivalisti si ispirarono. Fu allora che si suggellò un primo matrimonio di principi tra i sufi naqshbandi e i wahhabiti; perché le due correnti trovavano paradossalmente dei punti di contatto tra di loro. Infatti, a causa del loro impegno in politica, i naqshbandi hanno sempre operato in favore di una purificazione della religione, con l'obiettivo di instaurare un islam rigoroso che fosse regolato dalla sharia e fosse epurato da ogni canto o danza tipici della tradizione dei dervisci roteanti e dei membri della confraternita Chisti, soprattutto attraverso la musica qawwali (12).
Da questo imprevedibile matrimonio nacque poi il movimento deobandi. Si tratta di una scuola di pensiero revivalista apparsa nel nord dell'India nel 1857, come reazione alla colonizzazione britannica e che, in un primo tempo, combatté contro i Britannici con l'obiettivo di costituire una umma de-teritorializzata purgata da ogni contatto col nemico, sia Britannico che indu. In un secondo momento, ai tempi cioè della islamizzazione della società pakistana da parte di Zia-ul-Haq (13) nel 1977, furono proprio questi deobandi i responsabili dell'indottrinamento e della « wahhabizzazione » dei Pakistani, e i loro rapporti col wahhabismo valsero loro l'ottenimento dei fondi provenienti dal Golfo per la lotta contra i Sovietici. Successivamente, essi divennero una fonte di ispirazione importante per i Talebani afghani e per i componenti del Tablighi-Jamaat (14). Un altro esempio dei valori guerrieri del ramo sufi naqshbandi è quello dell' imam Chamil che, nel XIX secolo, combatté aspramente contro le truppe russe durante le loro incursioni nel Daghestan.
Ma, se in Pakistan i naqshbandi si sono alleati di loro volontà coi salafiti, pare che dovunque, altrove, il wahhabismo si sia imposto con la forza, sia in Mali, che in Somalia, in Cachemire o in Cecenia. E ciò perché, a paragone degli altri rami dell'islam, i sufi non dispongono di grandi mezzi finanziari e hanno difficoltà ad imporsi. A ciò si aggiunga che, trattandosi di una minoranza religiosa, i leader che tentato di appoggiarli vengono sospettati dalle popolazioni locali di clientelismo. Così si spiega perché il tentativo di integrazione dei sufi nella vita politica marocchina, algerina e siriana degli anni 1990, sia stata considerata come espressione di opportunismo e strumentalizzazione, suscitando così diffidenza e gelosie.
I sufiti al centro del caos siriano e iracheno
Pochi paesi mussulmani, come il Marocco, possono avvalersi di un re che abbia il titolo di Amir al-Muminin, vale a dire « comandante dei credenti ». Eppure sembra che tale prerogativa sia fattore di stabilità e permetta di ovviare al fatto che l'islam non ha un'unica autorità religiosa riconosciuta. In un'epoca in cui regna la confusione tra un islam wahhabita ritenuto il continuatore dell'islam originario, e la realtà politica che vede la legittimità della famiglia dei Saud sempre più contestata da forze di opposizione come il Qatar, i Fratelli Mussulmani, o perfino Ramzan Kadyrov (nella foto a destra) (15), che si vederebbe bene assumere il ruolo di guida suprema in concorrenza con l'autorità di La Mecca, sembra che il titolo conferito a Mohammed VI sia opportuno. Infatti la pratica moderata dell'islam in Marocco fa riferimento a ciò che pare possa definirsi la « via mediana », ad un islam tollerante, aperto al dialogo interconfessionale, del quale il re si fa garante. Ciò spiega perché la confraternita sufi qadiryyia boutchichiyya aiuti la monarchia a consolidare il regime e a lottare contro l’islamismo, promuovendo un islam tollerante con tutti, anche con le donne che non intendano portare il velo. E' anche per questo che, dopo l'attentato di Casablanca che provocò molte vittime nel 2003, il re invitò i sufi ad allearsi con l'Unione socialista delle forze popolari per sradicare il terrorismo e proporre un'alternativa alle popolazioni più povere. Purtroppo questa iniziativa ha prodotto delle tensioni, giacché qualcuno vi ha visto solo un calcolo politico, tanto più che il Marocco e l'Algeria sono concorrenti nella guerra di influenza nell'Africa del Sahel, ed entrambi usano il sufismo come un'arma al servizio del loro soft-power regionale. Succede dunque che una simile ingerenza della politica renda i giovani molto diffidenti verso il sufismo, e che in Algeria si veda male il fatto che il presidente Bouteflika abbia fatto il giro delle zawiya (luoghi di riunione dei sufi, ndt) per ottenere l'appoggio di questi religiosi alle elezioni presidenziali.
In Medio Oriente, sebbene i mussulmani che praticano l'esoterismo mistico non siano particolarmente inclini a promuovere la laicità, né entusiasti dei governi baatisti iracheno e siriano, appare tuttavia chiaro che, di fronte alle difficoltà dei regimi di Saddam Hussein e della famiglia Assad, i sufi si siano impegnati attivamente in politica per difendere i loro paesi contro lo Stato Islamico e i Fratelli Mussulmani. Traendone, di conseguenza, una specie di nostalgia per i regimi baatisti. In Siria, per quanto la famiglia Assad si sia preoccupata di collocare gli Alauiti in tutti i posti chiave di potere e di fare di Damasco e di Aleppo delle roccaforti del regime, ciò non toglie che, a seguito del massacro di Hama dovuto alla sollevazione dei Fratelli Mussulmani e dei sufi contro il regime nel 1982, questi ultimi abbiano ben compreso che l'islamizzazione della società non poteva farsi attraverso un Califfato islamico e che, senza la pratica individuale della religione, l'attivismo politico non aveva senso. Partendo da tale constatazione, nacque il dialogo inter-religioso tra i moderati e Hafez el-Assad, che si guardò bene dall'imporre loro una laicizzazione brutale per non correre il rischio dell'effetto opposto e della loro radicalizzazione.
Attualmente, un certo numero di sufi però si è schierato con l'Esercito Siriano Libero (FSA), come i membri del movimento Zayd. Quanto allo sceicco Yacoubi, figura di primo piano del sufismo in Siria, ha preferito andare in esilio in Marocco per fuggire da un regime che accusa di avere scarcerato alcuni quadri del Fronte al Nusra, mentre molti oppositori democratici sono ancora in galera. Ma per il suo ripudio della barbarie di Daesh e dell'islamizzazione delle leggi siriane, Mohamed al Yacoubi ha un profilo moderato, perché resta contrario alla violenza e all'appello ad uccidere tutti gli Alauiti. Va infine detto che, se i sufi non hanno davvero partecipato alla lotta armata durante i primi sollevamenti contro Bachar el-Assad, ciò si deve soprattutto al fatto che, grazie ai rapporti che hanno saputo intrecciare nel corso degli anni con la borghesia commerciale di Damasco e Aleppo, essi oramai appartengono alla classe sociale agiata. Le prime ribellioni furono una iniziativa delle classi rurali povere, e dunque essi non furono direttamente coinvolti.
Al contrario, in Iraq, l'impegno dei sufi nella guerra del 2003 è stata così importante che una delle organizzazioni militanti che essi hanno creato per combattere contemporaneamente contro Statunitensi, governo sciita di Nuri al-Maliki, Al-Qaeda e infine Daesh, è stata inserita nel 2009 dal Dipartimento di Stato USA nella lista dei gruppi terroristi. Battezzato Esercito degli uomini della naqshbandiyya (Jaysh Rijal al-Tariqa al-Naqshbandia - JRTN), questo gruppo che oscilla tra nazionalismo panarabo e islamismo, è ufficialmente emerso nel 2006, come reazione all'esecuzione di Saddam Hussein e all'invasione statunitense. Esso è principalmente composto da ex esponenti del partito Baath e da militari vicini al governo, come il generale Izzat Ibrahim al-Douri, uomo di Stato iracheno che è stato a capo dell'insurrezione baatista dopo l'invasione statunitense dell'Iraq. Come dice il suo nome, la caratteristica di questo gruppo è di essere soprattutto composto da sufi dell'ordine naqshbandi, giacché in definitiva la teoria statunitense del « caos costruttore » non ha avuto altro effetto se non quello di favorire l’emergere di Al-Qaeda e Daesh, e di fare dei sufi uno dei loro numerosi bersagli, di qui il loro mettersi insieme in questo gruppo. Paradossalmente, molti specialisti concordano sul fatto che si è osservata anche qualche alleanza di circostanza tra JRTN e Al-Qaeda, soprattutto quando nel 2004, durante la battaglia di Falluja, lo sceicco sufi Abdullah al-Janabi assunse il comando di entrambe le forze per scacciare congiuntamente gli Statunitensi. Dopo l'alleanza non durò oltre, ma lasciò il posto ad un coordinamento anch'esso stupefacente tra questa stessa unità combattente dei naqshbandi e Daesh. Sembrerebbe infatti che JRTN abbia utilizzato le capacità operative dello Stato Islamico per commettere attentati esplosivi contro i suoi oppositori politici. Sebbene non si possa parlare di una qualche forma di giuramento di fedeltà, dal momento che nel 2016 l'esercito sufi ha preso parte alla battaglia di Mosul contro lo Stato Islamico, il fatto che JRTN sia diventato nel 2014 il secondo gruppo armato più importante del paese dimostra fino a che punto sia stato protagonista di primo piano del conflitto, per quanto i suoi membri rifiutino ufficialmente qualsiasi forma di partecipazione al processo politico del paese .
Conclusioni
In conclusione, deve constatarsi che sufi riformisti e riformisti salafiti hanno sempre combattuto contro gli invasori, chiunque fossero. Ripudiando sistematicamente le pratiche sufi, i salafiti contemporanei sembrano dunque dimenticare che numerosi maître à penser sufi provenivano da potenti confraternite che, di fronte alla penetrazione occidentale, hanno fatto appello all'unità in nome del Profeta e all'applicazione della sharia. Di fatto il sufismo esoterico non è opponibile agli attivisti neo-sufi, giacché questi attivisti hanno saputo attingere la loro ispirazione negli scritti di pensatori come Ibn Arabi, ma anche in quelli di Ibn Taymiyya. Contrariamente a quanto si pensa in genere, l'esoterismo non è mai stato dunque un freno per l'attivismo socio-politico e per la dottrina dell’ijtihad (16). Quindi, mentre si dissolvevano i grandi imperi mussulmani (mongolo, sefevida e poi ottomano) molti sufi riformatori del XVIII secolo hanno, di concerto coi wahhabiti, chiamato alla lotta contro il declino dell'islam, cosa che doveva tradursi in un ritorno al modello della prima comunità di Medina e alla condanna di alcune pratiche giudicate immorali a causa del loro culto dei santi. Il paragone si ferma però qui, perché i wahhabiti sono ancora oggi refrattari ad ogni dimensione mistica dell'islam. Di fatto, Ibn Abd al-Wahhab è stato uno dei pochi a sconfessare i mussulmani riformisti, come dimostra il suo appello a profanare le tombe dei “Compagni” e dei santi seppelliti in Arabia. Ciò spiega perché, con la loro « wahhabizzazione », gli attuali terroristi si accaniscano contro i sufi e distruggano sistematicamente i loro luoghi santi. Infine occorre dire che, anche se alcune tariqa, come i naqshbandi, hanno talora sconfinato nell'ideologia islamista, talora nel settarismo messianico, non si deve dimenticare che sufismo e confraternismo sono due realtà differenti. Dunque se il confraternismo può infilarsi in alleanze politiche più o meno discutibili, la pratica individuale del sufismo, dal canto suo, non permette questo, perché la supremazia resta quella del profilo mistico.
Note:
1) Bibliografia : GEOFFROY Eric, Le Soufisme : voie intérieure de l’islam. Fayard, 2003 / RIDGEON Lloyd, Sufis and Salafis in the Contemporary Age, Bloomsbury, 2015 / SEDGWICK J. Mark, Sufism: the Essentials, The American University of Cairo Press, 2003 / ZAHID Farhan, « Roots of radical islamist ideologies in South Asia » Centre Français de Recherche sur le Renseignement, Tribune libre n°40, dicembre 2013.
2) Ibn Arabi, L’Interprète des désirs, Albin Michel, 2012.
3) Ibn Arabi, Le livre des chatons des sagesses, Al-bouraq, 1999.
4) Si tratta di principi che si ritrovano anche tra gli indù coi nomi di darshan e di brahman. Il darshan corrisponde al bisogno del devoto di avvicinarsi alla divinità attraverso il contatto diretto con una rappresentazione del suo dio o di un maestro spirituale che lo incarni. Il brahman designa l'Assoluto; la coscienza cosmica presente in tutte le cose. I sufi parlano di Tawhid.
5) L’associazionismo consiste nell'associare altre divinità o altri esseri a dio, accordando loro l'adorazione che dovrebbe essere riservata solo a dio. L’anatema contro le differenti forme di adorazione di dio fa soprattutto riferimento al VII secolo, quando è nato l'islam come reazione all'immoralità della società pre-islamica politeista, considerata jahiliyya o « età dell'ignoranza ». Coloro che associano delle creature al Creatore vengono chiamati mouchrikoun o politeisti.
6) Nella prima parte della sua vita, quando era vicino al governo selucida, Ghazali tentò di dimostrare i pericoli della filosofia per la fede e la religione, e rimproverò ai neoplatonici come Averroè e Al-Ma’mum, di attribuire troppa importanza alla metafisica nella questione della conoscenza di dio, dell'anima e del mondo, considerandola responsabile di favorire l'ignoranza. Nondimeno nella seconda parte della sua vita, Ghazali subì una crisi mistica che lo portò a ripudiare il suo approccio legalista alla religione. Dal suo insegnamento derivò una conciliazione tra la teologia, la mistica e il diritto.
7) A questo proposito, la confraternita naqshbandi rappresenta un « modello » in termini di interpretazione del politico nel religioso giacché, facendo del khalwat dar anjuman (« la solitudine nella folla ») la sua divisa, i suoi membri hanno sempre curato di legare esoterismo, sharia e attivismo politico. Così si spiega come, oggi, alcuni di essi non esitino a stringere alleanze di circostanza con gli islamisti e che, durante il jihad afghano del 1979, abbiano collaborato con l'Arabia Saudita per respingere i Sovietici.
8) Il neo-sufismo è un'espressione apparsa nel XVIII secolo per designare i movimenti sufi che sono riusciti ad adattarsi alla modernità.
9) Queste espressioni usate per designare il diritto alla guerra (jus ad bellum) e il diritto nella guerra (jus in bello) definiscono la legittimità di un conflitto e l'insieme delle regole giuridiche applicabili allo svolgimento delle ostilità.
10) Si trattava di una imposta applicata ai non mussulmani.
11) E' il figlio dell'imperatore mongolo Shah Jahan che fece costruire il Taj Mahal. Quando divenne a sua volta imperatore, Aurangzeb continuò a guerreggiare ed estese il territorio dell'impero dall’Assam all’Afghanistan. Ma, a causa della sua intransigenza religiosa, restaurò la jizya, bandì contemporaneamente i sufi, l'arte della miniatura, le tradizioni culturali legate ai canti e alle danze, e saccheggiò parecchi templi indù a motivo delle sculture che ospitavano.
12) Il qawwali è un genere musicale popolare tanto in India che in Pakistan, che esprime la devozione islamica sufi. Nusrat Fateh Ali Khan, un cantante di qawwali popolarissimo nell'Asia del sud, anch'egli appartiene alla confraternita Chishti.
13) Nominato l'11 ottobre 1976 capo dell'esercito pakistano dal presidente Zulfikar Ali Bhutto, rovescia quest'ultimo con un colpo di Stato nel 1977. Diventato presidente del Pakistan, si dedica all'islamizzazione del paese attraverso il finanziamento di madrasa islamiste e l'istituzione delle ordinanze Hudood, ponendo in tal modo la sharia al di sopra di ogni altra legge.
14) Questa associazione apolitica e revivalista che significa « Associazione per la predicazione » è apparsa nel 1927 a Mewat, in India. Essa aveva – e ancora ha – per obiettivo di re-islamizzare i mussulmani di tutto il mondo attraverso un'ampia rete di missionari che, ufficialmente svolgendo missioni umanitarie, favorisce indirettamente la radicalizzazione dei giovani mussulmani emarginati o devianti. Molto attive in Europa, le associazioni del Tabligh sono accusate di essere finanziate dall'Arabia saudita e dal Pakistan. Secondo uno studio della DST (francese) del 2003, l'80% delle reclute europee salafite sarebbero passate per il Tabligh.
15) Si tratta dell'attuale presidente della Cecenia. Nonostante sia un sufi, si segnala che l'irrigidimento dell'islam durante la sua presidenza (imposizione della sharia, del burqa, reintroduzione della poligamia, ecc.) faccia trasparire il suo intento di diventare leader dei mussulmani in Russia, e anche oltre.
16) L’ijtihâd designa lo sforzo di riflessione degli ulema, mufti e giuristi mussulmani, per l'interpretazione dei testi fondatori dell'islam e per desumerne il diritto mussulmano. Può considerarsi come una forma di adattamento ad un dato periodo e, nella specie, alla modernità.