La pravda statunitense: l’assassinio di JF Kennedy – prima parte
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USA, 4 luglio 2018 - Ron Unz spiega gli omicidi di John e Robert Kennedy. Se c’è ancora qualcuno di voi che crede alla storia del cecchino solitario, resa ufficiale dal rapporto della Commissione Warren, deve leggere Ron Unz (nella immagine, francobollo commemorativo di JFK)
Unz Review, 18 giugno 2018 (trad.ossin)
La pravda statunitense: l’assassinio di JF Kennedy – prima parte
Ron Unz
« Ron Unz spiega gli omicidi di John e Robert Kennedy. Se c’è ancora qualcuno di voi che crede alla storia del cecchino solitario, resa ufficiale dal rapporto della Commissione Warren, deve leggere Ron Unz. Aspetto con impazienza che si occupi anche del rapporto della Commissione sull’11 settembre » - Paul Craig Roberts
Una decina di anni fa, ho fatto un abbonamento Netflix e sono rimasto affascinato dalla possibilità di avere un accesso immediato dal mio schermo di computer a tante migliaia di film. Sarei rimasto lì a vederli tutti, ma il carico di lavoro ha prevalso e alla fine ho abbandonato il sistema.
All’epoca, quasi tutti i contenuti Netflix erano su licenza dai grandi studios e, da contratto, alcuni dei film che avrei voluto vedere non sarebbero stati più disponibili all’inizio dell’anno successivo. Uno di essi era il famoso film JFK di Oliver Stone, uscito nel 1991, che avrei dovuto guardare allora o mai più. Ho cliccato allora su PLAY e sono rimasto tre ore a guardare il premio Oscar 1992.
La trama mi è sembrata piutosto più strana e bizzarra, con l’uccisione del presidente a Dallas che sarebbe stata organizzata da una cabala di omosessuali militanti anticomunisti, legati in qualche modo sia alla CIA che alla Mafia, ma con base a New Orleans. Kevin Costner interpretava il ruolo di un procuratore distrettuale molto determinato di nome Jim Garrison – che ritenevo essere un personaggio immaginario – la cui inchiesta riuscì a fare breccia nella cospirazione assassina, fin quando i sottili tentacoli dello Stato profondo non finirono col bloccare le sue indagini. Almeno è questo quel che ricordo vagamente dopo aver visto il film. Con così tanti elementi di inverosimiglianza, il film mi confermò nelle mie convinzioni a proposito della sfrenata immaginazione dei soggettisti di Hollywood e mi diede un’ulteriore dimostrazione delle ragioni per le quali nessuna persona di buon senso ha mai preso sul serio quelle ridicole « teorie del complotto di JFK ».
Per quanto drammatiche, le circostanze reali della morte del presidente John F. Kennedy, al confronto, mi sembravano un’oasi di sanità mentale. Lee Harvey Oswald, un giovane marine irrequieto, aveva disertato nel 1959 rifugiandosi in URSS, ma aveva trovato la vita dietro la cortina di ferro altrettanto insoddisfacente. Rientrato negli USA qualche anno dopo, mantenendo ancora confuse simpatie marxiste, partecipò alle manifestazioni pubbliche di sostegno della Cuba di Fidel Castro e, gradualmente scegliendo l’opzione della violenza, si comprò un fucile per corrispondenza. Durante la visita presidenziale, sparò tre colpi d’arma da fuoco dalla Dallas School Book Depository, uccidendo JFK, e venne subito dopo arrestato dalla polizia locale. Altrettanto rapidamente anche lui morì, abbattuto da un seguace di Kennedy indignato di nome Jack Ruby. Tutte queste tristi circostanze sono state poi confermate dalla Commissione Warren a Washington DC, presieduta dal giudice capo degli Stati Uniti, affiancato da alcune figure pubbliche tra le più rispettate degli Stati Uniti, e il loro voluminoso rapporto occupa quasi 900 pagine.
Eppure, per quanto il film sembri avere messo insieme un’enorme quantità di folli supposizioni – perché mai un assassinio a Dallas sarebbe stato organizzato a New-Orleans, distante 500 chilometri? – un dettaglio mi aveva colpito. Garrison – il procuratore incaricato delle indagini – contestava la « teoria del cecchino isolato », secondo cui un unico proiettile aveva provocato sette diverse ferite al presidente Kennedy e al governatore del Texas, John Connolly, seduto al suo fianco nella limousine. Ebbene, se inventare degli assassini omosessuali della CIA sembra sia un classico a Hollywood, mi sembrava improbabile che potesse essere stato inventato un dettaglio così inverosimile come la traiettoria di quel proiettile. Dopo qualche giorno, il dettaglio mi è tornato in mente e ho effettuato qualche ricerca su Google, scoprendo con mio grande stupore che l’affermazione delle sette ferite provocate da un solo proiettile era autentica e che costituiva un elemento assolutamente essenziale della ipotesi ufficiale di « un solo sparatore », dato che Oswald non aveva sparato più di tre colpi. Era dunque quella che hanno chiamato la « Pallottola Magica ». Mi è capitato di incontrare talvolta dei fanatici delle cospirazioni pazzesche e deliranti, ma per la prima volta nella mia vita ho cominciato a chiedermi se forse, e dico forse, ci fosse davvero stata una cospirazione dietro l’assassinio più famoso del mondo moderno.
Tutti i cospiratori erano certamente morti di vecchiaia da molti anni, o addirittura da decenni, e io era tutto preso dal mio lavoro, quindi investigare sulle strane circostanze della morte di JFK non costituiva una priorità personale. Ma i sospetti mi restavano in mente mentre leggevo diligentemente il mio New York Times e il mio Wall Street Journal ogni mattina, e mentre periodicamente navigavo tra i siti web meno affidabili nel pomeriggio o la sera. E come risultato, ho cominciato a notare certi piccoli fatti sepolti qui e là, che in precedenza avrei ignorato o immediatamente respinto, e che hanno rafforzato la mia curiosità montante.
Tra le altre cose, occasionali riferimenti mi hanno ricordato che avevo visto i miei giornali recensire qualche libro su JFK pubblicato recentemente, in termini piuttosto rispettosi, cosa che all’epoca mi aveva un po’ sorpreso. Uno di essi – ancora controverso – era “JFK and the unspeakable” pubblicato nel 2008 da James W. Douglass, il cui nome non significava niente per me. E l’altro libro, il cui autore è David Talbot, era intitolato “Brothers : The Hidden History of the Kennedy Years”, 2007, incentrato sulla relazione tra John F. Kennedy e il fratello minore Robert. Il nome di Talbot mi era già un po’ familiare come fondatore di Salon.com e giornalista noto, per quanto di tendenze liberali.
Nessuno di noi è esperto in tutti i campi, quindi le persone sensate devono affidarsi al giudizio a terze persone credibili, per distinguere il sensato dall’assurdo. Siccome non sapevo nulla dell’assassinio di JFK, decisi che questi due libri recenti, che avevano attirato l’attenzione dei giornali, avrebbero potuto essere un buon punto di partenza. Allora, forse qualche anno dopo aver visto il film di Oliver Stone, ho sottratto un po’ di tempo ai miei impegni, e passato alcuni giorni a leggere attentamente le mille pagine dei due libri.
Sono rimasto sbalordito da quanto mi è capitato di scoprire. Non solo la prova di una « cospirazione » era assolutamente inoppugnabile ma, mentre avevo sempre supposto che solo degli ingenui potessero dubitare della storia ufficiale, ho invece appreso che vi è una lunga lista di persone, tra le più potenti al vertice del governo USA, e i meglio piazzati per conoscere i fatti, che era intimamente convinta di una tale cospirazione, e fin dall’inizio.
Il libro di Talbot mi ha particolarmente impressionato, essendo basato su oltre 150 interviste personali e pubblicato da The Free Press, un editore molto stimato. Anche se ha fatto una specie di agiografia dei Kennedy, il suo racconto è convincente, con molte scene convincenti. Ma se una tale combinazione ha sicuramente contribuito a spiegare il trattamento favorevole della critica e a farlo diventare best-seller nazionale in un campo già tanto sfruttato, per me la combinazione era molto meno importante del prodotto stesso.
Da quando l’idea di una cospirazione su JFK mi aveva cominciato a prendermi, avevo sempre considerato l’argomento del silenzio (di suo fratello Robert) come assolutamente conclusivo. Se infatti egli avesse nutrito il minimo dubbio sulla conclusione dello « sparatore solitario » promossa dalla Commissione Warren, il procuratore generale Robert Kennedy avrebbe avviato una inchiesta approfondita per vendicare l’assassinio di suo fratello.
Ma, come dimostra bene Talbot, la situazione politica reale era completamente differente. Robert Kennedy forse cominciò a essere considerato, dopo quella mattina fatale, come il secondo uomo più potente del paese, ma con la morte del fratello e con il giuramento in qualità di presidente del suo aspro nemico personale, Lyndon Johnson, la sua autorità di governo si è quasi immediatamente dissolta. Il direttore da lungo tempo dello FBI, J.Edgar Hoover, che era stato il suo subalterno ostile e che sarebbe stato probabilmente revocato con il secondo mandato di JFK, si è da subito mostrato sprezzante e sordo alle sue richieste. Avendo perso ogni controllo sulle leve del potere, Robert Kennedy non aveva alcuna possibilità di condurre una inchiesta seria.
Stando a numerose interviste personali, egli aveva quasi immediatamente concluso che suo fratello era stato colpito da un gruppo organizzato, del quale facevano molto probabilmente parte anche elementi provenienti dallo stesso governo statunitense, ma non poteva fare niente. Come confidava regolarmente ad alcuni amici, la sua speranza all’età di 38 anni era di andare lui stesso alla Casa Bianca, e una volta al potere, scoprire gli assassini di suo fratello e processarli. Ma prima di allora non poteva fare niente, e qualsiasi accusa infondata che avesse avanzato sarebbe stata assolutamente disastrosa per l’unità nazionale e la sua credibilità personale. Quindi, per anni, fu costretto ad annuire e ad essere pubblicamente acquiescente alla storia ufficiale dell’assassino inspiegabile di suo fratello per mano di un matto isolato, una favoletta pubblicamente approvata da quasi tutto l’establishment politico, e questa situazione gli rodeva molto. Inoltre l’apparente accettazione da parte sua di questa storiella è stata spesso interpretata da altri, soprattutto nei media, come un sostegno incondizionato alla versione ufficiale.
Per quanto la scoperta della vera opinione di Robert Kennedy sia stata la vera rivelazione cruciale del libro di Talbot, ce ne sono anche altre. Dal fucile di Oswald pare siano stati esplosi al massimo tre colpi, ma Roy Kellerman, l’agente dei servizi segreti a bordo della limousine di JFK, era sicuro che fossero stati di più, e fino alla fine della sua vita ha sostenuto che vi era stato più di uno sparatore. Il governatore Connolly, seduto vicino a JFK e gravemente ferito nell’attacco, aveva esattamente la stessa opinione. Il direttore della CIA, John McCone, era convinto anche lui che vi fossero stati più sparatori. Nel libro di Talbot, ho letto che decine di personalità eminenti e bene informate esprimevano in privato un estremo scetticismo a proposito della « teoria dello sparatore isolato » della Commissione Warren, per quanto raramente questi dubbi siano stati espressi in pubblico o nei media.
Per una serie di ragioni complesse, i principali organi di informazione nazionali – gli alti dirigenti della Pravda statunitense – approvarono quasi immediatamente la teoria dello « sparatore isolato » e, solo con qualche eccezione, mantennero questa posizione per tutto il mezzo secolo successivo. Con pochi critici eminenti disposti a contestare pubblicamente questa idea, e con una forte tendenza dei media ad ignorarli o a minimizzarne gli argomenti, gli osservatori occasionali come me hanno generalmente ricevuto una visione molto deformata della situazione.
Se le prime dozzine di pagine del libro di Talbot hanno completamente rivoluzionato l’idea che mi ero fatto dell’assassinio di JFK, ho trovato la parte finale quasi altrettanto scioccante. Con la guerra del Vietnam come una macina politica appesa al collo, il presidente Johnson decise di non ripresentarsi nel 1968, aprendo la strada ad un ingresso all’ultimo minuto nella corsa alle primarie del Partito Democratico di Robert Kennedy, che riuscì a vincere alcune importanti primarie. Infine, il 4 giugno 1968, vinse le primarie della California, Stato il cui vincitore prende tutto, perché si trova in una posizione privilegiata per la nomination e la stessa presidenza. A quel punto (Robert Kennedy) sarebbe stato in grado di indagare sull’assassinio del fratello. Ma pochi minuti dopo il suo discorso di vittoria, venne abbattuto e mortalmente ferito da un altro uomo solitario armato, questa volta un immigrato palestinese disoccupato di nome Sirhan Sirhan, asseritamente indignato per le posizioni pubbliche filo israeliane di Kennedy, anche se queste non erano particolarmente differenti da quelle di altri candidati.
Tutto questo mi era ben noto. Non sapevo però che le tracce di polvere bruciata avevano in seguito dimostrato che il proiettile era stato sparato direttamente dietro la testa di Robert Kennedy, a una distanza di 8 centimetri o meno, mentre Sirhan (il presunto sparatore) si trovava diversi metri davanti a lui. Inoltre testimonianze oculari e prove acustiche hanno dimostrato che sono stati sparati almeno dodici proiettili, nonostante il revolver di Sirhan ne potesse contenere solo otto, e tutti questi fattori combinati hanno indotto il coroner di Los Angeles, il dottor Naguchi, che fece l’autopsia, a concludere – nelle sue memorie del 1983, che ci fosse probabilmente un secondo sparatore. Nel frattempo, alcuni testimoni oculari hanno anche detto di aver notato una guardia del corpo con la pistola puntata proprio dietro Kennedy durante l’attacco, e questa persona nutriva un profondo odio politico verso i Kennedy. Gli investigatori della polizia non sembrano essersi particolarmente interessati a questi elementi molto sospetti, nessuno dei quali emerse durante il processo. Con la morte di entrambi i fratelli Kennedy, nessuno dei membri sopravvissuti della famiglia, né la maggior parte dei loro alleati e fedeli, desideravano una indagine sui particolari di questo ultimo assassinio e, in un certo numero di casi, se ne andarono dal paese. La vedova di JFK, Jackie, ha confidato ai suoi amici che era terrorizzata per la vita dei suoi figli, e ha poi sposato Aristote Onassis, un miliardario greco che riteneva in grado potesse proteggerli.
Talbot dedica anche un capitolo ai tentativi posti in essere alla fine degli anni 1960 dal procuratore di New Orleans, Jim Garrison, che hanno ispirato l’intrigo al centro del film JFK. Io sono rimasto stupefatto nello scoprire che il film di Oliver Stone era quasi interamente basato su episodi della vita reale e non su fantasie hollywoodiane. E questo vale anche per tutto il repertorio bizzarro dei sospettati di aver ordito la cospirazione, per lo più fanatici anticomunisti che odiavano Kennedy e avevano rapporti con la CIA e il crimine organizzato, alcuni dei quali appartenevano davvero agli ambienti omosessuali di New Orleans. Talvolta la vita reale supera la finzione.
Nell’insieme, ho trovato il racconto di Talbot abbastanza convincente, almeno per dimostrare l’esistenza di una cospirazione sostanziale dietro l’evento fatale.
Altri hanno avuto la stessa reazione, e perfino le pagine auguste della Sunday Book Review nel New York Times hanno ospitato un commento assai favorevole (alla tesi della cospirazione) dello storico presidenziale Alan Brinkley. Come professore di storia di Allan Nevins e decano dell’università della Columbia, Brinkley è un ricercatore accademico riconosciuto e rispettato e ha visto in Talbot
« l’ultimo dei tanti critici intelligenti che hanno inteso demolire la vacillante credibilità della Commissione Warren, e attirare l’attenzione sulle prove esistenti di una vasta e terribile cospirazione dietro l’assassinio di John Kennedy – e forse anche di Robert Kennedy ».
L’altro libro di Douglass, pubblicato un anno dopo, ripercorre più o meno gli stessi temi e giunge grosso modo alle stesse conclusioni, con una sostanziale sovrapposizione, ma introducendo anche ulteriori elementi aggiuntivi, tratti dall’enorme mole di materiale assai sospetto messo insieme nel corso degli anni da ricercatori intelligenti su JFK. Ancora una volta, il conflitto dell’epoca della guerra fredda, spesso aspro, tra JFK e diversi elementi molto più duri del governo sui temi di Cuba, della Russia e del Vietnam viene indicato come probabile spiegazione della sua morte.
Riassumendo mezzo secolo di cospirazione, i libri di Talbot e di Douglass forniscono congiuntamente una miniera di prove convincenti che elementi della criminalità organizzata, alcuni individui legati alla CIA, alcuni cubani anticastristi, hanno probabilmente partecipato al complotto. Oswald sembra avere lavorato con diversi gruppi anticomunisti, e aveva anche rapporti significativi coi Servizi statunitensi, mentre il suo presunto marxismo era solo una copertura molto sottile. Per quanto concerne l’assassinio, lui era proprio il « capro espiatorio » che ha dichiarato pubblicamente di essere, e molto probabilmente, non ha mai sparato un solo colpo d’arma da fuoco. Nello stesso tempo, Jack Ruby aveva una lunga storia di rapporti col crimine organizzato, e ha certamente ucciso Oswald per farlo tacere definitivamente.
Molti altri potrebbero avere subito la stessa sorte. Cospiratori tanto audaci da colpire il presidente degli Stati Uniti non avrebbero certo esitato a utilizzare mezzi letali per proteggersi dalle conseguenze della loro azione, e nel corso degli anni, un numero considerevole di persone coinvolte ha incontrato una morte prematura.
Meno di un anno dopo l’assassinio, l’amante di JFK, Mary Meyer, l’ex moglie dell’alto funzionario della CIA, Cord Meyer, è stata trovata morta in una strada di Washington DC, senza vi fosse stato alcun tentativo di furto o stupro, e il caso non è mai stato risolto. Subito dopo, il capo del controspionaggio della CIA, James Jesus Angleton, è stato sorpreso mentre entrava con effrazione nella casa della vittima alla ricerca del suo diario personale che ha, più tardi, dichiarato di avere distrutto.
Dorothy Kilgallen era una giornalista e una personalità della televisione. Riuscì ad avere una intervista esclusiva con Jack Ruby, vantandosi più tardi coi suoi amici che avrebbe svelato il caso dell’assassinio di JFK nel suo nuovo libro, facendo il più grande scoop della sua carriera. Invece dello scoop, è stata trovata morta nella sua casa nell’Upper East Side, apparentemente per aver assunto una dose eccessiva di alcool e sonniferi. Sia la bozza, che gli appunti del suo capitolo su Jack Ruby erano spariti.
Poco prima che Jim Morrison depositasse le sue accuse di omicidio, il principale sospetto, David Ferrie, è stato trovato morto all’età di 48 anni, forse per cause naturali, ma il procuratore sospettava un atto criminale.
A metà degli anni 1970, la Commissione speciale della Camera dei Rappresentanti sugli assassini ha tenuto una serie di udienze molto mediatizzate, e due delle persone convocate erano figure mafiose di alto rango, Sam Giancana e Johnny Rosselli, molto sospettate di essere coinvolte nell’omicidio. Il primo venne ucciso a colpi d’arma da fuoco nel seminterrato della sua casa una settimana prima della sua testimonianza, e il corpo del secondo è stato trovato in un barile galleggiante nelle acque al largo di Miami dopo essere stato citato per una nuova comparizione.
Queste erano solo alcune delle persone più in vista coinvolte nell’omicidio di Dallas, morte prematuramente negli anni seguenti, e sebbene i decessi possano essere stati puramente accidentali, la lista completa è piuttosto lunga.
Dopo aver letto qualche libro che ha completamente rivoluzionato le mie convinzioni consolidate su un avvenimento centrale negli Stati Uniti del ventesimo secolo, non sapevo più a questo punto che cosa pensare. Nel corso degli anni, i mei scritti mi avevano messo in relazione amichevole con un individuo ben introdotto, che consideravo come un esponente d’élite dell’establishment, e la cui intelligenza e la capacità di giudizio mi erano sempre sembrate molto solide. Decisi quindi di abbordare la questione con precauzione, e di capire se avesse mai dubitato della tesi ortodossa dello « sparatore solitario ». Con mio grande stupore, mi ha detto che all’inizio degli anni 1990, si era del tutto convinto che vi era stata una « cospirazione contro JFK » e aveva, nel corso degli anni, divorato tranquillamente un gran numero di libri sul tema, ma non aveva mai pronunciato una sola parola in pubblico, per paura che la sua credibilità potesse risentirne e la sua forza politica crollare.
Un altro amico, un giornalista esperto, noto per le sue posizioni rimarchevolmente coraggiose su certi soggetti controversi, ha fornito quasi esattamente la stessa risposta alla mia domanda. Per decenni era stato quasi certo al 100% che JFK era stato vittima di una cospirazione, ma anche lui non aveva mai scritto una sola parola in proposito, per paura che la sua influenza potesse ridimensionarsi.
Se questi due individui rappresentavano qualcosa, cominciai a chiedermi se una parte considerevole, forse anche la maggioranza, dell’establishment rispettabile nutrisse da tempo opinioni personali sull’assassinio di JFK del tutto contrastanti col verdetto apparentemente uniforme presentato nei media. Ma, con tutte queste voci rispettabili che mantenevano il silenzio, io non avevo mai sospettato niente del genere.
Poche altre rivelazioni degli ultimi anni hanno tanto rivoluzionato la mia comprensione di un evento. Anche uno o due anni più tardi, io continuavo a trovare difficile accettare il fatto, come ho scritto in un’altra nota a quel mio amico bene introdotto:
« A proposito, detesto continuare a farlo ma ogni volta che considero le implicazioni della questione JFK, sono sempre più sbalordito. E’ presidente degli Stati Uniti, erede di una delle famiglie più ricche e più potenti del paese, suo fratello è il magistrato più importante del paese. Ben Bradlee, uno dei suoi amici più intimi, è l’editore animatore di uno dei media più influenti della nazione. Quale primo presidente cattolico degli USA, è l’icona sacra di diverse milioni di famiglie irlandesi, italiane, ispaniche.
Il suo assassinio è considerato come uno degli avvenimenti più scioccanti e drammatici del XX secolo, e ha ispirato centinaia di libri, e decine di migliaia di notizie e di articoli, che hanno esaminato tutti i dettagli possibili. L’argomento del silenzio dei grandi media mi è sempre sembrato assolutamente concludente.
Fin dall’infanzia, mi è parso sempre evidente che la stampa a grande tiratura è del tutto disonesta su certe cose e, da una dozzina d’anni, sono diventato estremamente diffidente a proposito di tutta una serie di altre questioni. Ma se mi aveste domandato qualche anno fa se JFK fosse stato vittima di una cospirazione, avrei risposto: ‘beh, tutto è possibile, ma sono certo al 99% che non vi sia alcuna prova di questo, altrimenti la stampa ne avrebbe fatto milioni di titoli’.
C’è davvero stata una Prima Guerra Mondiale? Beh, io ho sempre supposto di sì, ma chi può saperlo veramente? … ».
La nostra realtà è modellata dai media, ma quel che i media presentano è spesso determinato da forze complesse piuttosto che dai fatti che si svolgono davanti ai nostri occhi. E le lezioni da trarre dall’assassinio di JFK possono contribuire grandemente a spiegare questa situazione.
Un presidente è morto e, poco dopo, il suo presunto assassino solitario ha subito la stessa sorte, è una storia pulita con un finale conveniente. Suscitare dubbi o soffermarsi su prove contrarie potrebbe aprire porte che è meglio mantenere chiuse, perché si rischierebbe di compromettere forse l’unità nazionale o addirittura provocare una guerra nucleare se la pista sembrasse condurre oltreoceano. Il più alto responsabile della magistratura del paese era il fratello del presidente assassinato, e giacché anche lui sembrava accettare pienamente questa storia semplice, quale giornalista o editore responsabile avrebbe potuto pensare di contrastarla? Quale centro di potere o di influenza statunitense aveva un interesse importante ad opporsi a questa narrazione ufficiale?
Certamente ci fu uno scetticismo immediato ed assai ampio all’estero, dove pochi leader credevano alla storia ufficiale, e personalità come Nikita Kruscev, Charles De Gaulle e Fidel Castro conclusero che l’eliminazione di Kennedy era dovuta a un complotto. I media dominanti in Francia e nel resto dell’Europa occidentale erano anch’essi scettici di fronte alla « teoria dello sparatore isolato » e alcune tra le prime e importanti critiche alle affermazioni del governo USA sono venute da Thomas Burnett, uno scrittore statunitense espatriato, che scriveva per uno dei settimanali francesi più importanti. Ma in un’epoca precedente a internet, solo un piccolo gruppo di pubblico statunitense aveva un accesso regolare a queste pubblicazioni straniere, e il loro impatto sull’opinione nazionale era nullo.
Forse, invece di chiedersi perché la storia dello « sparatore solitario » sia stata accettata, conviene piuttosto domandarsi perché non sia stata mai vigorosamente contestata, in un’epoca in cui il controllo dei media era estremamente centralizzato nelle mani dell’establishment.
Curiosamente, la risposta potrebbe trovarsi nella determinazione di un singolo individuo chiamato Mark Lane, un avvocato di sinistra di New York e attivista del Partito Democratico. Sebbene i libri sull’assassinio di JFK si contino a migliaia e le teorie del complotto abbiano turbato la vita pubblica statunitense negli anni 1960 e 1970, senza il suo coinvolgimento iniziale, le cose avrebbero potuto seguire una traiettoria completamente differente.
All’inizio Lane era scettico nei confronti della narrazione ufficiale, e meno di un mese dopo l’assassinio, The National Guardian, un piccolo giornale nazionale di sinistra, pubblicò una critica di 10.000 parole, indicando le maggiori falle della « teoria dello sparatore isolato ». Nonostante questo articolo sia stato respinto da tutti gli altri periodici nazionali, l’interesse del pubblico fu enorme e, quando tutte le copie furono esaurite, dovettero essere stampate altre migliaia di copie in forma di opuscolo. Lane affittò perfino un teatro a New York, e per diversi mesi diede affollate conferenze pubbliche.
Quando la Commissione Warren pubblicò il suo verdetto ufficiale che contraddiceva del tutto la sua analisi, Lane cominciò a lavorare ad un libro, pur incontrando enormi ostacoli per trovare un editore statunitense disposto a pubblicarlo. Quando poi il suo libro, Rush to Judgment, fu alla fine pubblicato, è rimasto per due anni al primo posto dei bestseller nazionali. Un tale successo economico spinse ovviamente una folla di altri autori a cimentarsi con quel soggetto e così nacque un vero e proprio genere editoriale. Lane ha pubblicato più tardi A Citizens Dissent, nel quale ha raccontato le sue prime lotte per spezzare il « black-out mediatico » statunitense contro chiunque contraddicesse le conclusioni ufficiali. Contro ogni aspettativa, era riuscito a scatenare un’imponente sollevazione popolare contro la narrazione dell’establishment.
Secondo Talbot, « verso la fine del 1966, stava diventando impossibile per i media dell’establishment attenersi alla storia ufficiale » e il 25 novembre 1966, un numero del magazine Life, all’epoca al massimo della sua influenza nazionale, aveva come titolo di copertina « Oswald ha agito da solo ? », concludendo che probabilmente non era stato così. Il mese successivo il New York Times annunciò la formazione di un gruppo di lavoro speciale per indagare sull’assassinio. Questi elementi dovevano fondersi col furore mediatico che circondò l’inchiesta del procuratore Garrison che cominciò l’anno successivo, e che vide Lane come partecipante attivo. Tuttavia, dietro le quinte, venne contemporaneamente lanciato anche un potente contrattacco mediatico.
Nel 2013, il professor Lance deHaven-Smith, ex presidente della Florida Political Science Association, ha pubblicato “Conspiracy Theory in America”, un’affascinante esplorazione della storia del concetto e delle probabili origini dell’espressione stessa. Ha osservato che nel 1966 la CIA si era allarmata per il crescente scetticismo nazionale a proposito delle conclusioni della Commissione Warren, specialmente quando il pubblico cominciò a nutrire sospetti sulla stessa agenzia di informazioni. Di conseguenza, nel gennaio 1967, gli alti responsabili della CIA distribuirono un memo a tutte le loro agenzie locali, chiedendo loro di attivare i loro media e i loro contatti con l’élite, per confutare queste critiche con diversi argomenti, soprattutto insistendo sulla circostanza della ritenuta approvazione dei risultati della Commissione Warren da parte di Robert Kennedy.
Questo memo, che è stato possibile conoscere grazie al Freedom of Information Act, utilizza ripetutamente l’espressione « cospirazione » in un senso fortemente negativo, suggerendo che le « teorie della cospirazione » e i « teorici del complotto » dovessero essere presentati come irresponsabili e irrazionali. E come ho già scritto nel 2016 :
« Poco dopo, apparvero sui media delle dichiarazioni che ripetevano questi precisi concetti, con espressioni, argomenti e contesti argomentativi che corrispondevano esattamente alle linee direttive della CIA. Ne è risultato un uso fortemente peggiorativo del concetto di cospirazione, che si è esteso a tutti i media statunitensi, con un impatto residuo che continua ancora oggi ».
Questa possibile relazione causa-effetto è supportata anche da altre prove. Poco dopo aver lasciato il Washington Post nel 1977, Carl Bernstein, famoso giornalista del Watergate, ha pubblicato una cover story di 25.000 parole su Rolling Stone, dal titolo « La CIA e i media » rivelando che più di 400 giornalisti statunitensi avevano effettuato segretamente missioni per conto della CIA, secondo quanto risulta da documenti archiviati nella sede dell’organizzazione. Questo progetto di influenza, noto come « Operazione Mockingbird », sarebbe stato avviato verso la fine degli anni 1940 da un alto responsabile della CIA, Frank Wisner, e coinvolgeva editori e giornalisti collocati ai vertici della gerarchia del media tradizionali.
Per una qualche ragione, quando sono diventato adulto e ho cominciato a leggere i media nazionali, alla fine degli anni 1970, la storia di JFK era diventata molto vecchia e tutti i giornali e i magazine che leggevo suggerivano che le « teorie del complotto » che circondavano l’assassinio fossero delle assurdità totali, da tempo demistificate, e interessanti solo per eccentrici estremisti ideologici. Io ero certamente consapevole dell’enorme profusione di libri popolari sulle cospirazioni, ma non ho provato mai il minimo interesse a leggerli. L’establishment politico statunitense e i amici nei media erano sopravvissuti alla ribellione popolare, e il nome Mark Lane non significava quasi niente per me, se non come una sorta di dettaglio marginale che assai raramente veniva menzionata nei miei giornali mainstream, ricevendo lo stesso trattamento riservato ai fanatici di Scientologist o degli UFO.
Stranamente, anche il modo in cui Talbot tratta Lane è piuttosto sprezzante, riconoscendone il ruolo primario nell’impedire che la narrazione ufficiale si cristallizzasse rapidamente, ma sottolineando la sua personalità abrasiva, e ignorando quasi del tutto i suoi importanti lavori successivi sulla questione, forse perché gran parte di questo lavoro era stato effettuato nell’ambito di una militanza in frange politiche marginali. Anche Robert Kennedy e i suoi amici più fedeli hanno boicottato il lavoro di Lane fin dall’inizio, considerandolo come un seccatore ficcanaso, ma forse anche infastiditi dal fatto che egli poneva le domande e faceva il lavoro che essi stessi erano in quel momento così poco disposti a intraprendere. Il libro di 500 pagine di Douglass menziona appena Lane.
Leggendo un paio di libri di Lane, sono rimasto impressionato dal ruolo enorme che egli sembra avere giocato nella storia dell’assassinio di JFK, ma mi sono anche chiesto quante esagerazioni potessero essere imputate ad un bisogno di auto-promozione. Poi, il 13 maggio 2016, ho aperto il mio New York Times e vi ho trovato un necrologio di quasi una pagina intera dedicato alla morte di Lane all’età di 89 anni, un trattamento riservato solo ai Senatori o alle star del rap. E le 1.500 parole erano assolutamente illuminanti, dipingendo Lane come una figura solitaria ed eroica che ha lottato per decenni per rivelare la verità della cospirazione dell’assassinio di JFK contro tutto l’establishement politico e mediatico che cercava di occultarla.
Ecco la frase che ho interpretato come un mea culpa profondo del giornale nazionale statunitense più autorevole :
« Il presidente John F. Kennedy è stato infatti vittima di una cospirazione, e noi siamo desolati di aver passato più di mezzo secolo a cercare di reprimere questa verità e a cercare di mettere in ridicolo quelli che l’hanno scoperta ».
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