Le schede di Ossin, 15 ottobre 2019 - Nessuno sa che la Mafia di Chicago degli anni 1920 era un fenomeno sostanzialmente italo-ebraico, e che la grande maggiorana dei Mafiosi californiani erano ebrei. Si tratta dei capostipiti di alcune delle più ricche famiglie statunitensi (nella foto, il giudice mafioso David Bazelon)
Pravda statunitense. Il potere della criminalità organizzata
Ron Unz
Come un giovane avvocato della mafia di Chicago ha guadagnato una fortuna coi beni degli Statunitensi di origine giapponese, e ha poi vissuto felice e contento come giudice della Corte d'appello federale più rispettata in tema di libertà civili
Mentre crescevo nel sobborgo San Fernando Valley di Los Angeles negli anni 1960 e 1970, il crimine organizzato mi sembrava qualcosa di lontanissimo, confinata alle città densamente popolate della costa Est o al passato degli Stati Uniti, al pari degli apparati politici corrotti ai quali generalmente veniva associato.
Non ho mai sentito parlare di storie di manipolazione del voto, o di cartelli politici non ufficiali che si spartiscono tutti i lavori municipali, o di contravvenzioni «perdonate» da un amico al Municipio. L’idea che le drogherie pagassero per la protezione o raccogliessero le scommesse del lotto clandestino mi sarebbe sembrata alquanto bizzarra.
Tutte queste impressioni personali erano fortemente rafforzate dai media elettronici, che tanto contribuiscono a forgiare la nostra percezione della realtà. Alcune delle trasmissioni popolari che mi capitava di guardare erano polizieschi come Dragnet e Adam-12, entrambe ambientate nelle strade della California, e, per quando ogni episodio parlasse di uno o più crimini gravi, non erano quasi mai del genere «organizzato». Lo stesso vale per le puntate di Perry Mason, sebbene questi drammi ambientati in un’aula di udienza sarebbero stati adatti alle trame della mafia. Il popolare Rockford Files della fine degli anni 1970 metteva in scena talvolta dei mafiosi, ma essi erano quasi sempre gente di New York, Chicago, Las Vegas, temporaneamente a Los Angeles, e le trame erano a volte umoristiche e rappresentavano questi gangster come pesci fuor d’acqua che si muovevano con difficoltà nel mondo tanto differente del sud soleggiato californiano. Per contro, una serie poliziesca contemporanea ambientata a New York, come Kojak, sembra mettere in scena personaggi mafiosi in un episodio su tre o quattro.
Il cinema seguiva generalmente lo stesso schema. I film di gangster, dai più rozzi di serie B ai capolavori come “Il Padrino”, vincitore di Oscar, non sono stati quasi mai girati nella costa ovest. E, per quanto un film come Chinatown di Roman Polanski tratti il tema dei sanguinosi intrighi dell’élite finanziaria degli anni 1930 a Los Angeles, il cattivo era solo un uomo d’affari senza scrupoli, che aveva al suo servizio non più di un paio di killer.
I bambini si rendono presto conto che gli intrugli drammatici di Hollywood non sono necessariamente veri, ma quando tutto quello che vediamo sugli schermi grandi e piccoli corrisponde tanto precisamente alla nostra esperienza personale diretta, questo incontro di immagini e di vita quotidiana produce un senso molto fermo della realtà.
Anche l’eccezione sembrava confermare la regola. Negli anni 1970, ricordo di aver visto una troupe televisiva locale intervistare un vecchio ebreo che si chiamava Mickey Cohen sulla panchina di un parco pubblico, descrivendolo con orrore come qualcuno che era stato il re regnante della mafia di Los Angeles. Per quanto non avessi motivo di dubitare che in passato quel piccoletto scontroso fosse stato un criminale incallito, dubitavo che Los Angeles avesse mai avuto abbastanza gangster per giustificare l’esistenza di un re, senza contare che quel personaggio veniva dalla nostra comunità ebraica, notoriamente rispettosa della legge.
Lungo tutti gli anni 1960 e 1970, la criminalità è diventata un problema sempre più preoccupante nei sobborghi prima tranquilli di Los Angeles, ma nessun episodio assomigliava a un’epopea di Francis Ford Coppola. I Crips e i Bloods di South-Central si ammazzavano a vicenda e ammazzavano regolarmente anche dei passanti innocenti, mentre furti e rapine – e qualche stupro e omicidio occasionali – si riversavano a volte dalle colline di Hollywood giù a valle. Terribili serial killer come lo strangolatore di Hillside provocavano il terrore, come gli orribili atti della famiglia Manson, e la sparatoria finale dell’esercito di liberazione simbionese ha riempito le prime pagine dei giornali nazionali; ma niente di tutto questo assomigliava molto alle gesta dei Gambino o dei Colombo di NYC. Difatti scherzavamo a volte tra amici dicendo che, se la mafia viene considerata tanto efficace nel tenere sotto controllo la microcriminalità a New York, per Los Angeles sarebbe stato meglio avere una popolazione siciliana più numerosa.
Quando a volte ci riflettevo, mi sembrava piuttosto facile spiegare la totale assenza della criminalità organizzata in California. Le città della costa ovest sono state colonizzate da ondate di immigrati stranieri, nuovi arrivati poveri che non parlavano inglese, e la loro ignoranza totale dei costumi statunitensi li rendeva facili prede del reclutamento mafioso. Situazioni di questo genere erano un terreno fertile per la corruzione, l’insediarsi di apparati politici corrotti e cosche mafiose, cui le società segrete secolari della Sicilia e dell’Italia meridionale fornivano il necessario know how. Per contro, la maggior parte della California era stata colonizzata da cittadini statunitensi di lunga data, spesso provenienti dal placido Midwest, e gli abitanti dello Iowa, che parlavano perfettamente l’inglese e le cui famiglie votavano alle elezioni USA da sei generazioni, erano molto meno vulnerabili alla intimidazione politica o al reclutamento mafioso.
Giacché il crimine organizzato non esisteva manifestamente in California, non ho mai avuto idea di quali ne fossero le dimensioni e il potere nel resto del paese. Al Capone era stato arrestato ed era morto decenni prima che io nascessi e, con la fine degli anni folli, anche il gangsterismo violento sembrava essere sparito. Di tanto in tanto, i giornali pubblicavano la storia di qualche capo della mafia orientale ucciso dai rivali, ma non fornivano alcuna indicazione sul potere che questi individui avevano esercitato da vivi. Nel 1977, alcuni adolescenti di un’oscura gang di immigrati cinesi di San Francisco usarono ami automatiche per attaccare i rivali in un ristorante, lasciando per terra sedici tra morti e feriti, un numero che sembrava paragonabile al numero totale di ammazzati dalla mafia in tutto il paese, nel corso di diversi anni.
Negli anni 1970, cominciai anche a sentire storie terribili secondo cui la mafia avrebbe manipolato le elezioni del 1960 in favore del presidente John F. Kennedy e sarebbe stata anche coinvolta nel suo successivo assassinio, ma i media rispettabili sembravano trattare queste affermazioni con grande disprezzo, e dunque anche io tendevo a considerarle delle assurdità come quelle che scriveva il National Enquirer (un tabloid scandalistico statunitense, ndt), non molto diverse dalle storie ridicole sugli UFO. Mentre crescevo, i Kennedy erano diventati una sorta di famiglia reale statunitense, ed io ero assai scettico sul fatto che il controllo della Casa Bianca, all’apogeo del “secolo americano”, fosse stata affidata a dei capimafia. Circolavano storie che il vecchio Joe Kennedy, il patriarca della famiglia, si fosse dato al traffico di alcool negli anni 1920, ma era durante il proibizionismo, un’epoca del tutto diversa dai calmi e prosperi anni 1950 di Eisenhower.
La storia statunitense del XX secolo non mi ha mai molto interessato e non so dire quando esattamente la mia comprensione di queste questioni abbia cominciato a cambiare. Penso possa essere stato non molto tempo fa, quando rimasi scioccato nello scoprire che vi erano prove davvero schiaccianti sul fatto che l’omicidio di JFK fosse stato il frutto di una vasta cospirazione, una rivelazione del tutto opposta a quanto i media mi avevano fatto credere per tutta la vita. Ma quando un giornalista nazionale rispettatissimo come David Talbot ha messo insieme abbondanti prove nel libro “Brothers”, e le sue conclusioni sono state approvate da un eminente storico presidenziale come Alan Brinkley nelle pagine dell’augusto New York Times, il cambiamento dlle mie opinioni divenne inevitabile. E mi sembrò chiaro che esponenti della criminalità organizzata fossero fortemente coinvolti nell’assassinio del presidente.
Il mio risveglio alla realtà a proposito dell’assassinio di JFK ha richiesto un certo tempo perché potessi digerirlo ma, un anno o due più tardi, ho cominciato a interessarmi più attentamente a quell’epoca e ho deciso alla fine di leggere “The Dark Side of Camelot”, un grandissimo best-seller pubblicato nel 1997 di Seymour Hersh, forse il nostro giornalista investigativo più famoso. Per quanto si concentrasse principalmente sui rapporti col crimine organizzato dell’amministrazione Kennedy e trattasse solo marginalmente dell’assassinio che pose ad essa termine, quasi tutto il materiale sembrava molto conforme a quanto avevo recentemente letto negli altri libri aventi a oggetto i fatti del 1963 a Dallas. E l’antica relazione tra i Kennedy e la criminalità organizzata, a volte ostile, a volte amichevole, era assolutamente rivelatrice dell’immenso potere nascosto di quest’ultima istituzione sociale.
Quando diversi giornalisti di fama giungono a conclusioni identiche e supportano le loro affermazioni scioccanti con prove credibili e abbondanti, dobbiamo accettare la realtà di quello che ci hanno presentato.
Sembra, per esempio, assolutamente innegabile che la mafia di Chicago abbia manipolato le elezioni del 1960 a favore di Kennedy, servendosi del controllo sulla macchina elettorale di questa città estremamente corrotta, per assicurarsi i 27 voti elettorali cruciali dell’Illinois e mandare JFK alla Casa Bianca al posto del suo avversario, l’allora vicepresidente Richard Nixon.
Questo risultato venne raggiunto grazie all’intensa attività di lobbying personale di Joseph Kennedy, Sr. Appoggiata fortemente dal cantante Frank Sinatra, un artista con legami personali forti sia con i Kennedy, che col “mondo di sotto”. Dunque la mafia riteneva che una amministrazione Kennedy vittoriosa le avrebbe reso la vita più facile. Invece il nuovo Procuratore generale Robert Kennedy potenziò la guerra del governo contro la criminalità organizzata, tanto che il capomafia Sam Giancana, sentendosi tradito, ordinò per rappresaglia l’assassinio di Sinatra. Certamente questa sensazione di tradimento ha grandemente facilitato il coinvolgimento di diversi esponenti del gangsterismo nell’assassinio di Dallas.
Ironia della sorte, la stessa criminalità organizzata si era molto divisa in occasione delle elezioni del 1960. Jimmy Hoffa, un mafioso a capo del potentissimo sindacato dei camionisti, era diventato acerrimo nemico di Robert Kennedy quando quest’ultimo era consigliere giuridico capo del Comitato senatoriale sul racket nel 1957, e Hoffa diventò dunque uno dei più importanti sostenitori di Nixon, donandogli in segreto un milione di dollari in contanti per la campagna elettorale, e invitando gli aderenti al sindacato e i gruppi affiliati a fornire a quest’ultimo un sostegno entusiastico.
La relazione reale tra i baroni del crimine e il nuovo presidente statunitense era complessa e contraddittoria, con suo fratello Robert che li contrastava ferocemente e la CIA che, allo stesso tempo, sollecitava l’aiuto degli stessi gruppi – talvolta degli stessi individui – nei tentativi infruttuosi di assassinare il leader comunista di Cuba, Fidel Castro.
Anche se ero rimasto piuttosto sorpreso nello scoprire che queste voci e pettegolezzi erano in realtà fondati su solide prove, i fatti meno sanguinari che riuscii ad appurare erano ancora più scioccanti. Per quanto scrupolosamente ignorati dai giornalisti e dagli storici rispettabili, vi erano prove consistenti che esponenti del crimine organizzato avevano già profondamente penetrato i vertici delle grandi imprese statunitensi, e talvolta condizionato importanti decisioni governative in loro favore.
Prendiamo per esempio la società General Dynamics, che si era già piazzata tra le principali imprese statunitensi della Difesa negli anni 1950, e il cui nome era stato sempre dalla mia mente registrato un po’ distrattamente, come d’altronde i nomi anche di Lockheed o Boeing. Anni prima avevo letto, con notevole shock, un disinvolto paragrafo del rimpianto giornalista Alexander Cockburn, un impavido divulgatore di scandali:
" A proposito di continuità, un famoso scandalo degli anni di Kennedy è stata la decisione del segretario alla Difesa di JFK, Robert McNamara che, ignorando tutte le raccomandazioni degli esperti, decise che dovesse essere General Dynamics, e non Boeing, a produrre il disastroso F-111, Si trattò, all’epoca, di uno dei più importanti contratti di approvvigionamento della storia del Pentagono… Crown, di Chicago Sand and Gravel, aveva avuto 300 milioni di dollari dalla mafia in obbligazioni di General Dynamics e, dopo il disastro del Convair, General Dynamics aveva bisogno dello F-111 per evitare il fallimento. E ne aveva bisogno anche la Mafia, per evitare di dover perdere 300 milioni di dollari ".
Per quanto più tardi sia diventato buon amico di Cockburn e abbia rispettato la sua opinione, all’epoca accolsi le sue affermazioni con molto scetticismo. Tuttavia, trattando il tema in modo molto più dettagliato, anche Hersh confermò pienamente questa storia, aggiungendo particolari ancora più sorprendenti. Pare che degli agenti della società aerospaziale siano stati sorpresi mentre svaligiavano la casa dell’amante preferita di JFK ed Hersh ha suggerito che fossero comunque riusciti a prendere qualcosa che servì poi per organizzare il ricatto cui si piegò il ministro della Difesa Robert McNamara, respingendo tutte le obiezioni del Pentagono e accordando il più colossale contratto della storia militare mondiale all’impresa sostenuta dalla mafia. Inoltre, anche secondo gli standard degli appalti pubblici, lo F-111 prodotto fu un vero disastro, non essendo mai riuscito a garantire gli obiettivi di rendimento previsti, nonostante una lievitazione dei costi iniziali di quasi il 700 %. Un investimento finanziario della criminalità organizzata è stato dunque salvato a caro prezzo, sia per la nostra efficienza militare che per le tasche del contribuente.
Stabilito a questo punto che la criminalità organizzata sembrava aver giocato un ruolo nazionale molto più importante nella storia statunitense del XX secolo di quello che io avessi potuto immaginare leggendo i principali giornali e settimanali, ho deciso recentemente di ampliare le mie conoscenze sul tema. Qualcuno mi ha segnalato il lavoro del giornalista investigativo Gus Russo, un esperto di questo tema. Russo ha lavorato come reporter principale per la pluripremiata PBS Frontline e anche per altre reti televisive, ed ebbe anche una nomination per un premio Pulitzer del 1998 per un libro sull’alleanza JFK-Mafia contro Castro.
Più di una dozzina d’anni fa, Russo ha pubblicato due corposi volumi sulla storia della criminalità organizzata in due specifiche regioni, The Outfit nel 2001 che parla di Chicago e Supermob nel 2006 che parla della California. Insieme, questi due approfonditi lavori di ricerca contano più di 1 100 pagine e più di mezzo milione di parole, cosa che sembra eclissare quasi tutto il resto prodotto in questo campo. Negli anni 1990, la declassificazione di una gran quantità di documenti governativi, comprese le intercettazioni dello FBI e i dossier del Congresso, ha permesso a Russo di avere accesso a questi documenti prima indisponibili. Ha completato poi questa decisiva ricerca archivistica con fonti secondarie contenute in centinaia di libri e articoli, oltre a più di 200 interviste personali, e il suo secondo volume, particolarmente voluminoso, fa riferimento a questa ricchezza di fonti attraverso più di 1500 note a piè di pagina. I numerosi commenti elogiativi di eminenti procuratori, di ex agenti delle forze dell’ordine e di esperti della materia testimoniano fortemente della credibilità delle sue ricerche, che hanno avuto certamente bisogno di molti anni di lavoro intenso.
Come neofita della materia della mafia di Chicago, la mia prima sorpresa è stata di constatare la continuità e la longevità di questa impresa criminale. Avevo sempre vagamente pensato che, dopo l’arresto di Al Capone e l’abrogazione del proibizionismo, la sua banda si fosse disgregata o che avesse, almeno, perduto gran parte della sua capacità di presa, ma era totalmente falso. Nei decenni seguenti, invece, i successori di Al Capone hanno sensibilmente ridotto le manifestazioni di violenza che avevano provocato una dura repressione federale, moltiplicando la loro ricchezza e il loro potere assumendo il controllo di molte altre fonti di guadagno, tra cui molti sindacati e imprese legittime, ed estendendosi geograficamente anche in altri Stati. Anche la leadership delle bande di Chicago sembra essere stata notevolmente stabile nel corso della maggior parte del mezzo secolo seguente, cosicché, ancora negli anni 1970, l’autorità suprema era esercitata da un individuo che si era arruolato inizialmente con Al Capone negli anni 1920, quando era solo un delinquentello violento, e che avrebbe rapidamente acquisito una grande fama picchiando a morte due perfidi tirapiedi di Big Al con una mazza da baseball.
Gli autori hanno una naturale tendenza a porre l’accento sull’importanza dei temi trattati, ma io penso che Russo abbia dimostrato in modo convincente che l’unità e la stabilità del “mondo di sotto” di Chicago gli abbiano conferito un notevole vantaggio rispetto agli omologhi di New York, la cui permanente divisione in cinque famiglie mafiose distinte ha reso difficile la pace, spesso rotta da conflitti violenti. Di conseguenza, i gangster disuniti di New York non sono mai stati in grado di esercitare un grande controllo sulla loro amministrazione municipale e ancor meno sugli altri centri di potere criminale rivali delle altre città della costa est, mentre il Chicago Syndicate sembra avere sempre goduto di una forza assai grande nella politica cittadina ed essere riuscito a estendere la propria “sovranità” ad una gran parte del Midwest, negli Stati dei Rocky Mountain, e in California.
Un’altra sorpresa è stata l’origine etnica del Chicago Outfit e dei suoi più stretti collaboratori. Nella costa est l’adesione alla mafia era tradizionalmente riservata esclusivamente ai Siciliani o ad altri Italiani, ma questa regola non sembrava applicarsi alla città ventosa. Nel corso degli anni 1920, vi furono scontri sanguinosi tra la mafia italiana di Capone e i violenti gangster irlandesi che controllavano il Northside, e gli ebrei erano ampiamente rappresentati in entrambi i gruppi. Ma Capone riuscì ad eliminare i suoi avversari, riportando la schiacciante vittoria finale col massacro di San Valentino nel 1929, dopo di che i nomi irlandesi sono spariti dalle cronache criminali, mentre la presenza di Slavi o Tedeschi continuava ad essere rara, nonostante fossero molto presenti nella popolazione locale.
Ma, per quanto i dirigenti del sindacato siano rimasti quasi interamente italiani – ad eccezione di un immigrato gallese – quasi la metà dei personaggi chiave della dettagliata cronaca di Russo si sono rivelati essere ebrei. A partire dagli anni 1930, la criminalità organizzata di Chicago è stata essenzialmente un partenariato italo-ebraico, con gli Italiani impegnati nella parte violenta dell’impresa, e gli ebrei più versati nel riciclaggio di denaro sporco, la corruzione politica e l’aggiustamento dei processi.
I legami col “mondo di sotto” di individui che le storie lette nei media dominanti non avevano mai definito «mafiosi» mi hanno aperto gli occhi. Per esempio, io ho sempre conosciuto Walter Annenberg come il ricchissimo editore di TV Guide e un amico intimo dei Reagan, che ha generosamente dotato l’enorme Fondazione Annenberg per sostenere diversi progetti non a scopo di lucro, come PBS (azienda no profit di radiodiffusione pubblica, ndt). Tuttavia chi aveva fatto fortuna in famiglia era stato suo padre Moe Annenberg, che ha creato il più grande servizio di bookmakers degli Stati Uniti, in stretta collaborazione con Capone e i suoi successori di Chicago. Il vecchio Annenberg, alla fine, venne rinchiuso in una prigione federale per evasione fiscale sugli enormi guadagni illegali, e pagò la più pesante ammenda della storia fiscale degli Stati Uniti, facendo anche in modo di scagionare il figlio Walter, che era stato suo socio di impresa. Russo difende in effetti Annenberg, sostenendo che è stato preso ingiustamente a bersaglio dall’amministrazione Roosevelt a causa della sua opposizione politica a FDR.
Come altro esempio, i miei manuali di storia avevano spesso detto che il presidente Harry Truman era stato un prodotto dell’apparato politico di Tom Pendergast di Kansas City, in Missouri, che avevo sempre pensato si fosse occupato solo della politica locale e, forse, di elargire qualche tangente in Municipio. Ma secondo Russo, la città si collocava al secondo posto, dopo Chicago, per livello di corruzione municipale, la polizia locale essendo al comando di un ex gangster di Capone e il 10% degli ufficiali avendo la fedina penale sporca, mentre lo stesso Pendergast era stato un partecipante illustre alla convention nazionale mafiosa del 1929 a Atlantic City, oltre che ad altri summit della mafia. Il diario personale di Truman registra gli atti criminali che egli ha regolarmente permesso in cambio della sua nomina a magistrato.
Secondo Russo, il signor Pendergast decise poi di elevare Truman al rango di senatore, soprattutto per proteggersi dalle ripercussioni del recente assassinio locale di quattro agenti federali, e la campagna vittoriosa di Truman al Senato portò con sé altri omicidi. Durante l’amministrazione Truman, il Procuratore Generale Tom Clark sarebbe stato promosso alla Corte Suprema in cambio della liberazione anticipata di un importante luogotenente di Capone che stava scontando una pena in una prigione federale, uno scandalo che indusse il Chicago Tribune a reclamare la destituzione di Clark.
Truman stesso giunse alla Casa Bianca perché candidato democratico nel 1944 come vicepresidente di FDR, e la sua scelta era stata sostenuta da Sidney Hillman, presidente del CIO e qualche volta indicato come il secondo uomo più potente degli Stati Uniti. Secondo informazioni recenti ottenute grazie alla declassificazione di dossier governativi, la crescita di importanza del sindacato di Hillman era stata facilitata da una stretta alleanza coi gangster della «Murder Inc» di New York, il cui capo Lepke Buchalter è stato alla fine giustiziato senza scalfire Hillman.
In quel periodo, l’enorme crescita di potere e di influenza della criminalità organizzata non sfuggiva all’attenzione di coloro che stavano fuori dalla sua orbita, che talvolta decidevano di occuparsene per loro ragioni, ma spesso subivano sconfitte impreviste. Nel 1950, l’appena eletto senatore del Tennessee, Estes Kefauver, decise di migliorare il suo profilo pubblico, in vista di una futura competizione presidenziale, avviando una crociata nazionale contro lo strapotere dei gangster e tenendo conferenze per screditarne i capi. Kefauver, però, era un notorio donnaiolo e, alla sua prima visita a Chicago, gli vennero scattate delle foto compromettenti mentre era in compagnia di due donne fornite dalla mafia, dopo di ché il senatore cambiò idea sulla priorità della lotta alla criminalità organizzata.
Talvolta i gangster della vita reale hanno influenzato ironicamente i loro interpreti di Hollywood. Nel 1959, Desi Arnaz cominciò a produrre «Gli Intoccabili», una trasmissione televisiva popolare che raccontava scontri settimanali dell’epoca del proibizionismo tra il G-Man Eliot Ness e i gangster Al Capone e Frank Nitti, e questa serie televisiva influenzava molto la percezione popolare della criminalità organizzata. Secondo le successive memorie della mafia, i migliori gangster di Chicago si indignarono per ciò che essi consideravano un ritratto assai impreciso della loro storia e che consideravano diffamatorio verso gli Italo-Statunitensi. Dopo che Arnaz ebbe ignorato gli avvertimenti che gli erano giunti attraverso Frank Sinatra, progettarono di farlo assassinare. Ma i loro agenti californiani non erano contenti di assassinare l’indimenticata star di «I Love Lucy», e la vedova di Capone oppose subito il suo veto, perché suo figlio era stato il migliore amico di Arnaz negli anni di liceo in Florida.
Questo tentativo assai grossolano dei gangster italiani di Chicago di intervenire sugli aspetti etnici percepiti di una semplice trasmissione televisiva solleva una questione ben più ampia, che dovrà essere accuratamente esaminata. Oltre alla nostra diretta esperienza della vita reale, quasi tutto quello che sappiamo sul mondo proviene dai media, in quanto i programmi di intrattenimento influenzano in modo decisivo la maggior parte delle persone. Nel corso degli anni 1930 e 1940, i film di gangster di diversa qualità erano stati molto popolari e, in una certa misura, «The Untouchables» ha contribuito a far rivivere questo genere per il nuovo media emergente, la televisione. In tutto questo tempo, a eccezione di Disney, specializzatosi in disegni animati, tutti i grandi studios di Hollywood erano quasi tutti di proprietà o diretti da ebrei, che controllavano anche tutte le nostre reti radiofoniche e televisive. Quindi, per decenni, quasi tutto quello che gli Statunitensi medi hanno ascoltato o visto è passato attraverso un filtro etnico molto specifico.
E questo ha influito molto sul modo in cui si sono formate le percezioni popolari sulla natura della criminalità organizzata. Lungo tutti i decenni mediani del XX secolo, i gangster venivano talvolta rappresentati senza alcuna chiara connotazione etnica, spesso come Italiani o forse Irlandesi, ma solo assai raramente identificati come ebrei, costruendo un luogo comune che era considerevolmente ingannevole.
Mano a mano che prendevo coscienza di questa distorsione della Storia, qualche decennio fa, ho pensato di fare un semplice esperimento, enumerando mentalmente i dodici personaggi più importanti che mi erano venuti in mente dell’epoca dei Gangster. Al Capone era ovviamente il più famoso, seguito da Lucky Luciano, Meyer Lansky e Bugsy Siegel. Vengono poi un certo numero di personaggi un po’ meno di rango: Frank Costello, Legs Diamond, Lepke Buchalter, Dutch Schultz, Bugsy Moran, Johnny Torrio, Hymie Weiss e Arnold Rothstein. Non avevo mai studiato la storia del crimine statunitense e la mia lista era dunque vaga e solo frutto di impressioni, ma sono rimasto sorpreso nel constatare che quell’ambiente, che avevo sempre considerato come maggioritariamente italiano, era di fatto principalmente ebreo, comprendendo che mi ero fatto influenzare da una percezione ingannevole, senza concentrami sul contenuto reale. Infatti la celebre società di Brooklyn «Murder Inc» era stata in origine creata da Lansky e Siegel e sembra essere stata in maggiorana ebraica, pur essendo diventata molto «rispettata» per le centinaia di omicidi commessi, con uno dei suoi capi che vantava un numero di vittime personali superiore a 100, addirittura molti di più.
Ma siccome non avevo mai sentito parlare di un solo gangster ebreo di Chicago, ero dunque assai sorpreso nell’apprendere che quasi la metà della grandi figure della storia criminale di Russo era composta da ebrei.
Il volume del 2001 di Russo potrebbe a giusto titolo essere considerato la storia definitiva della criminalità organizzata di Chicago e, dopo anni di ricerche supplementari, è uscito anche «Supermob». Io ho trovato il seguito del 2006, avente ad oggetto il mio Stato della California, ancora più interessante e profondamente inquietante. Mentre il suo primo libro era principalmente un racconto del “mondo di sotto” di una città e della sua evoluzione sotto la guida degli eredi di Al Capone, questo secondo raccontava di come alcuni individui che erano stati, agli esordi, dei gangster del Syndicat abbiano continuato ad arricchirsi e ad accrescere il loro potere nel «mondo degli affari» e della rispettabilità. E le dimensioni della criminalità organizzata, che erano state un sottotesto importante di quella prima opera, sono diventate assolutamente centrali nel secondo.
La ricostruzione completa degli avvenimenti spiega che, negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, un gruppo di ex affiliati al Chicago Syndicate si è istallato in California e ha messo le mani nella politica del Golden State, anche se i media locali e nazionali hanno chiuso gli occhi su questi importanti sviluppi, rendendoli invisibili al grande pubblico. Tale ricostruzione è sorretta da soldi argomenti.
Un punto importante sottolineato dall’autore è che queste novità sono state facilitate dalle riforme politiche dell’ex governatore Hiram Johnson e di altri grandi progressisti californiani degli inizi del XX secolo. Mirando a impedire lo sviluppo del «bossismo» politico, fenomeno endemico in molti Stati dell’est del paese, avevano considerevolmente ridotto il potere dei partiti politici autorizzando la registrazione incrociata dei candidati e altre misure tese a ridurre fortemente l’influenza degli apparati dei partiti. Ma la popolazione dello Stato salì alle stelle, con un aumento di più del 50 % tra il 1940 e il 1950, e di quasi un altro 50 % nel decennio successivo, con nuovi arrivi provenienti da tutto il paese. Coi partiti indeboliti e la maggior parte dei candidati sconosciuti alla gran parte dei nuovi elettori californiani, i soldi per la pubblicità elettorale divennero l’ingrediente cruciale del successo politico in uno Stato vastissimo, dove lo spazio nei media è costosissimo, e dunque solo chi era in grado di raccogliere molti finanziamenti aveva la possibilità di crescere in popolarità negli ambienti politici. Inoltre, personaggi che si erano formati nella giungla politica spietata di Chicago hanno capito che l’ingenua California era un ambiento molto più facile per muoversi.
Art White, uno dei principali giornalisti politici dell’epoca a Los Angeles, spiegò più tardi questa insolita contingenza politica:
" La California stava diventando uno Stato pieno di stranieri, orfani politici e dissidenti anticonformisti che si erano iscritti al loro partito, per poi scoprire che in quello l’ideologia politica non aveva alcuna importanza. I repubblicani correvano come democratici e i democratici correvano come repubblicani. Con concertante regolarità, alcuni repubblicani che avevano ottenuto la nomination in entrambi i partiti, vincevano le primarie.
Siccome la designazione del partito non aveva alcun significato per l’elettorato, le elezioni venivano vinte dal candidato che disponeva di più soldi, dei più grandi cartelloni pubblicitari, di più articoli e più spazio radio.
Qualsiasi individuo in grado di escogitare un sistema per raccogliere questi supporti fondamentali alla campagna elettorale, sarebbe stato in condizione di affermarsi come capo politico, nello stile californiano. Il «boss»… poteva dire la sua, magari avere l’ultima parola, nella nomina dei giudici, dalle Corti municipali fino alla Corte Suprema dello Stato. Altre nomination potevano riguardare i periti dei diritti di successione, i procuratori generali aggiunti, i capi di dipartimento dello Stato e i commissari dei ministeri. Con un mazzo di simili nomine in tasca, il «boss» era in grado di proteggere i suoi interessi economici ".
Uno degli esempi più significativi di un successo tanto rapido è la carriera dell’ex avvocato di Chicago Paul Ziffren, la cui folgorante ascesa nei corridoi della politica californiana è stata alimentata dalla sua capacità di raccogliere enormi somme di denaro per i suoi candidati favoriti. Poco dopo il suo arrivo a Los Angeles nella metà degli anni 1940, i suoi stretti legami con la Casa Bianca di Truman gli permisero di soppiantare i più importanti democratici locali in termini di influenza nazionale. Nel 1953, venne nominato membro del Comitato nazionale democratico per la California e venne apprezzato per avere «ri-dinamizzato» il partito in questo Stato, riuscendo a farlo prevalere in entrambe le Camere del Parlamento dello Stato per la prima volta in 75 anni. Ciò gli valse anche un elogio del presidente nazionale del partito, che lo indicò come il democratico che più aveva contribuito a questo successo.
Nel 1954, fece eleggere Pat Brown al posto di procuratore generale della California, che ricambiò nominando il fratello di Ziffren come Procuratore Generale aggiunto della California del sud, così garantendo alle attività del Syndicat una grande protezione, nonostante l’ostilità costante del servizi locali di polizia.
Questo nuovo regista della politica californiana vide i suoi rischi giudiziari ulteriormente ridursi l’anno successivo, quando Alex Greenberg, suo socio d’affari da lungo tempo, venne ammazzato a colpi d’arma da fuoco nelle strade di Chicago, portando con sé nella tomba tutto quello che sapeva dell’enorme rete di transazioni immobiliari di Ziffren per conto del Syndicat. Il potere e l’influenza di Ziffren durarono decenni e, quando alla fine è morto nel 1991 all’età di 77 anni, tra chi lo ha pianto figuravano gli ex governatori della California Pat e Jerry Brown, il futuro governatore Gray Davis, oltre a tante star di Hollywood, mentre riceveva uguali omaggi dal Los Angeles Times e da altri giornali, nessuno dei quali fece il minimo cenno al suo oscuro passato.
Il Partito repubblicano californiano si è spesso comportato allo stesso modo nella ricerca di appoggi finanziari. Mentre Ziffren raccoglieva con successo fondi provenienti da fonti misteriose per la campagna elettorale del 1950 di Helen Gahagan Douglas al Senato statunitense, Murray Chotiner, avvocato di lunga data della mafia, faceva lo stesso per il suo avversario Richard Nixon, la cui vittoria fece di Chotiner un grande stratega repubblicano, sia in California che nel resto del paese. Ironia della sorte, mentre i candidati denunciavano regolarmente i rapporti dei loro avversari con “mondo di sotto”, tutti questi avvocati democratici e repubblicani rivali della «Supermob» avevano tutti case e uffici vicino a Beverly Hills e mantenevano di solito buoni rapporti tra loro, facendo anche qualche volta affari insieme, magari scambiandosi pettegolezzi sui punti di forza e di debolezza dei candidati di cui curavano la campagna.
Pat Brown è stato eletto governatore in maniera inattesa contro il candidato repubblicano di Chotiner nel 1958, poi è stato ri-eletto contro Nixon nel 1962, ma ha perso nel 1966 contro il nuovo venuto Ronald Reagan. L’ascesa politica di Reagan era stata organizzata dal magnate hollywoodiano Lew Wasserman della MCA, l’ennesimo trapianto di Chicago. Anche Wasserman e il suo mentore Jules Stein hanno avuto per decenni rapporti con la Mafia, fin dai tempi di Al Capone, e hanno regolarmente utilizzato i muscoli del gangsterismo per rafforzare i loro partner commerciali ed eliminare i loro concorrenti.
Russo ci fornisce l’interessante racconto di come Wasserman fece eleggere Reagan, all’epoca un attore di serie B in rovina, alla presidenza della Screen Actors Guild nel 1959, perché nella qualità di presidente gli facesse ottenere un’esenzione speciale per la MCA. Lo ricompensò poi con un contratto molto ben retribuito alla televisione. Grazie a questa manovra ben riuscita, le straordinarie opportunità di affari della MCA fecero di Wasserman il re regnante di Hollywood per decenni e, in seguito, egli ha giocato anche un ruolo importante nell’elezione di Reagan al posto di governatore.
La ricostruzione di questi avvenimenti da parte di Russo si ispira a “Dark Victory : Ronald Reagan, MCA, and the Mob”, un volume del 1986 molto studiato da Dan Moldea, qualificato giornalista esperto di criminalità, che l’aveva già letto e lo aveva trovato molto convincente. L’enorme influenza della MCA e dei suoi dirigenti ha evidentemente fortemente ostacolato la distribuzione e la recensione mediatica del libro di Moldea, e l’autore è stato costretto anche a dimettersi dall’Institute of Policy Studies, un think tank di sinistra di Washington DC, che dipendeva dal finanziamento di donatori legati alla MCA. Una sorte assai simile era già stata riservata al romanzo dell’autore popolare Henry Denker, The Kingmaker (1972), un romanzo a chiave su Wasserman e l’ascesa politica di Reagan, la cui distribuzione è stata fortemente limitata nonostante le critiche eccellenti.
Per quanto Wasserman avesse accumulato una grande ricchezza e un’enorme importanza sociale, non ha mai messo da parte le sue relazioni criminali e, per decenni, il suo amico più intimo è stato un agente di collegamento del Syndicat in California.
Si tratta dell’avvocato Sidney Korshak, che è la figura centrale della lunga ricostruzione di Russo, con una delle sue rare fotografie pubbliche in copertina. Korshak cominciò a lavorare per la gang di Al Capone a Chicago, e si fece rapidamente una reputazione di abilità nel mantenere i rapporti tra il mondo delle gang criminali, i sindacati influenzati dalla mafia e le imprese legittime. Questa abilità e l’assenza quasi totale di tracce scritte negli archivi pubblici o nei media lo hanno reso il rappresentante ideale del Chicago Syndicate e, stando a ulteriori testimonianze davanti al Congresso, egli venne trasferito nella California del Sud, agli inizi degli anni 1950, per supervisionare le operazioni allora in piena espansione sulla costa ovest.
Negli anni seguenti, Korshak divenne uno dei principali intermediari di potere a Hollywood, mantenendo un’enorme influenza sui sindacati degli Stati della costa ovest e le imprese che da essi dipendevano, riuscendo perfino a promuovere o fermare uno sciopero con una semplice telefonata. Sebbene sia sempre stato teoricamente un avvocato, non aveva né uno studio né dipendenti, e svolgeva la maggior parte delle sue attività professionali da un telefono che aveva istallato al suo tavolino preferito di un bistrot di Beverly Hills, da cui si allontanava a volte per le conversazioni più delicate, per evitare le intercettazioni. Tutti i riferimenti ai suoi padroni di Chicago erano in codice, tanto che, al ritorno dal viaggio di nozze, la nuova moglie di Korshak annotò la lunga lista di messaggi oscuri lasciati da George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, e Théodore Roosevelt.
Nel corso della sua lunga carriera, Korshak ha fatto di tutto per mantenersi quasi invisibile e, per quanto partecipasse regolarmente a eventi hollywoodiani e a ricevimenti di élite, rimase inorridito quando uno sceneggiatore male informato gli scattò accidentalmente una foto. Nonostante fossero sempre più di pubblico dominio l’ampiezza del suo enorme potere nel sud della California e delle sue relazioni poco raccomandabili, le sue amicizie e la sua influenza gli hanno evitato quasi ogni accenno nei giornali. Nel 1962, il vertice del Los Angeles Times smantellò improvvisamente l’unità investigativa di punta del giornale per porre termine a una lunga serie di articoli sulle operazioni immobiliari sospette finanziate dal sindacato dei camionisti, perché avrebbero inevitabilmente condotto fino a Korshak e al suo cerchio ristretto di soci. Come più tardi ha raccontato il redattore capo del Times: «Se riesci in qualche modo a convincere un tizio a parlare, tu o lui, o tutti e due, finirete da qualche parte in una fossa».
Nel 1969, la diffusa consapevolezza locale dell’enorme potere nascosto di Korshak e dei suoi legami profondi con le gang spinse finalmente l’editore nazionale del Times a commissionare il suo profilo a un giovane reporter. Nonostante forti pressioni, questa storia venne alla fine divulgata, ma in una forma tanto purgata che Korshak si vantava che gli amici la consideravano come una pubblicità personale. Per evitare comunque anche questo, subito offrì a Dorothy Buffum Chandler, la matriarca del giornale, un pagamento immediato di 25 000 $ perché il suo nome non fosse mai più pubblicato, una intesa che quest’ultima accettò e rispettò. Nel corso degli anni, diversi giornalisti californiani determinati hanno visto i loro articoli tanto sudati censurati dai loro superiori editoriali, e qualche volta si sono dimessi disgustati.
In tutti i decenni in cui Korshak è stato potente, uno dei resoconti più importanti e rarissimi delle sue attività è apparso sul New York Times, scritto nel 1976 da Seymour Hersh, anch’egli originario di Chicago, che si era già fatto conoscere rompendo il silenzio sul massacro di My Lai qualche anno prima, un trionfo che gli era valso un premio Pulitzer e diversi altri premi. Raccontò poi Hersh che, quando aveva cominciato le sue ricerche, i poliziotti indignati e i giornalisti messi in precedenza a tacere gli avevano fornito subito un gran numero di documenti di riferimento. Ma scoprì ben presto che Korshak si era procurato tutti i suoi registri di chiamata e il suo itinerario di viaggio da un dipendente del Times, ed ebbe anche poi un’agghiacciante conversazione col soggetto delle sue ricerche che lo chiamava da una cabina telefonica di Los Angeles Ovest. Anche se Korshak si preoccupò di non minacciarlo mai esplicitamente, la sua conversazione comprendeva parole ricorrenti come «omicidio…corpi…sangue…morte…uccisioni», e il giornalista se ne ricordava benissimo anche dopo decenni. Hersh ha saputo da altri che Korshak utilizzava regolarmente questo tipo di intimidazioni in circostanze simili.
Nonostante le formidabili pressioni esercitate dagli amici di Korshak e che le minacce di azioni giudiziarie abbiano indotto due dirigenti del Times a tentare di fermare l’inchiesta, nonostante ancora che il sindacato dei camionisti abbia proclamato uno sciopero alla vigilia della pubblicazione del primo, gli articoli di Hersh vennero pubblicati e sollevarono molta attenzione nazionale, anche se il Los Angeles Times li ignorò accuratamente. Successivamente, Hersh fu contattato da una delle nipoti di Korshak, che gli raccontò un ricordo personale che comprendeva anche occasionalmente la menzione della soddisfazione espressa da Korshak, quando era giovane in occasione di una festa di Séder_de_Pessa’h (Pasqua ebraica), dopo aver ricevuto una telefonata che lo informava dell’assassinio riuscito di un riformatore politico dell’Illinois. In una rara intervista personale con Russo, Hersh riassume succintamente la sua valutazione di Korshak: «Era il padrino. Senza dubbio, era lui a ordinare gli omicidi».
Taluni aspetti dello stile di vita di Korshak lasciano pensare che Hersh avesse ragione. La sua casa fortificata e recintata era pattugliata da guardie armate, a quanto pare ex militari dell’esercito israeliano. Un dirigente dello studio che gli aveva reso visita si trovò davanti un uomo armato che gli aprì la porta di ingresso, una situazione in cui non si era mai imbattuto in precedenza.
Tanta attenzione per la propria sicurezza personale non era forse ingiustificata. Secondo documenti dello FBI pubblicati successivamente, Korshak faceva il doppio gioco e tentava di garantirsi l’impunità fornendo un flusso regolare di informazioni confidenziali alla polizia di Las Vegas e allo FBI, circostanza che avrebbe certamente messo in pericolo la sua vita se fosse venuta a conoscenza dei suoi complici. In effetti, quando Korshak aveva ottanta anni, venne improvvisamente avvicinato da un giornalista di Hollywood per strada, e reagì come se pensasse che la sua ora fosse giunta, poi fu con enorme sollievo che scoprì che quel tipo era solo un giornalista e non il sicario che aveva per tanto tempo atteso.
L’enorme influenza di Korshak viene dettagliatamente raccontata nelle pagine del voluminoso libro di Russo. Ha giocato un ruolo decisivo nell’elezione dei governatori californiani, ha reso Al Pacino disponibile a recitare il ruolo del Padrino, sembra sia intervenuto per fare in modo che Roman Polanski sfuggisse a qualsiasi conseguenza per avere violentato e sodomizzato una ragazzina di 13 anni, ed è stato coinvolto in un gran numero di transazioni commerciali legali e illegali, il cui valore totale sembra doversi calcolare in miliardi di dollari. Ma il suo nome non è quasi mai apparso nei media, il grande pubblico non era certamente al corrente della sua esistenza quando morì per cause naturali nel 1996. Solo allora i media di informazione hanno improvvisamente ripreso coraggio e il suo decesso è stato annunciato con titoli che devono aver lasciato confusi i lettori poco informati, Il New York Times pubblicando «Sidney Korshak, 88 anni, è morto; Faccendiere leggendario della mafia di Chicago» e il Los Angeles Times «Sidney Korshak, sedicente agente di collegamento della mafia a Hollywood, è morto a 88 anni».
Il denaro era senza alcun dubbio il latte materno della politica californiana del dopo guerra. Ma la rapidità con cui questi recenti trapiantati da Chicago si sono trasformati in potenti figure finanziarie nel loro nuovo Stato è stata molto facilitata dalla loro partecipazione ad una particolare manna finanziaria. Essi sono stati i principali beneficiari di una delle peggiori violazioni della storia nazionale dei diritti costituzionali commessa dal governo, e Russo dedica un intero capitolo a questa storia oscura.
Come tutti gli altri Asiatici, la popolazione di origine etnica giapponese della California ha a lungo sofferto di una dura discriminazione razziale, essendo statale negata la naturalizzazione e dunque vietandosi ad essa il possesso della terra, nonostante ogni ulteriore immigrazione dalla sua patria fosse stata vietata negli anni 1920. Eppure, nonostante questi Giapponesi fossero arrivati come braccianti agricoli senza un soldo, soprattutto verso l’inizio del secolo, il loro lavoro intenso e la loro parsimonia li rese una piccola comunità relativamente prospera alla fine degli anni 1930. Il quattordicesimo emendamento accordava la cittadinanza ai loro figli nati negli Stati Uniti, cosa che consentiva alle loro famiglie di acquistare anche grandi estensioni di terre agricole e altre proprietà, con un visibile successo che suscitava talvolta una grande invidia da parte dei vicini e dei concorrenti bianchi.
Come ho detto altrove, il disperato tentativo di FDR di aggirare la fortissima opposizione alla partecipazione degli USA alla Seconda Guerra Mondiale portò alla fine alle interminabili provocazioni del 1941 contro il Giappone, che hanno provocato l’attacco di Pearl Harbor. Poco dopo, appelli demagogici lanciati da politici e esperti di media spinsero gran parte dell’opinione pubblica a reclamare l’incarcerazione di tutti i residenti di origine giapponese, cittadini o meno, e, all’inizio del 1942, FDR firmò un decreto esecutivo che ordinava il trasferimento di circa 120 000 statunitensi di origine giapponese in tetri campi di concentramento, costretti talvolta a lasciare le loro case con un preavviso brevissimo. Persero di conseguenza la quasi totalità dei beni che avevano accumulato lungo due generazioni, la maggior parte dei quali venne confiscata o comunque acquisita dal governo. Decreti governativi dello stesso tipo disposero la confisca di molte imprese appartenenti a Tedeschi in tutti gli Stati Uniti, a volte imprese molto importanti.
Nello spazio di qualche anno, queste acquisizioni federali crebbero fino a comprendere un mezzo milione di acri delle migliori terre agricole, circa 1 265 piccoli hotel giapponesi e numerose particelle urbane a Los Angeles, San Jose e altre città. Nel 1942, il governo federale stimava il valore di queste ex proprietà nippo-statunitensi in circa 3 miliardi di dollari secondo il valore attuale, ma l’enorme boom economico e demografico della California del dopo guerra avrebbe certamente accresciuto considerevolmente il valore di questo portafoglio immobiliare agli inizi degli anni 1950. I valori commerciali e i brevetti delle imprese tedesche sequestrate rappresentavano ulteriori miliardi di dollari.
Con la fine della guerra, tutte queste proprietà sono state vendute e potenti interessi di Chicago hanno messo gli occhi su questa formidabile opportunità. Le elezioni del 1946 erano state una disfatta schiacciante per i democratici al potere e i repubblicani avevano ripreso il controllo di entrambe le Camere, per la prima volta dal 1932. Il presidente Truman dovette ingaggiare quindi una battaglia disperata per farsi ri-eleggere, e la potente macchina politica di Chicago impegnò tutta la sua considerevole influenza politica, chiedendo in cambio che le procedure di vendita fossero affidate a David L. Bazelon, un giovane avvocato di Chicago e principale collettore di fondi democratici, con stretti legami con il Syndicat. Bazelon subì una riduzione delle sue entrate dell’80% quando entrò a far parte della funzione pubblica, ma presto si vantò col Washington Post di essere diventato «uno dei più importanti uomini d’affari del paese». Il motivo di questa scelta apparve subito evidente, quando cominciò a organizzare la vendita dei beni confiscati per una frazione del loro valore reale al suo cerchio di amici e di associati di Chicago, ricevendo talvolta in cambio una quota segreta di proprietà in queste lucrose transazioni.
A titolo di esempio, Bazelon ha quasi subito venduto a Henry Crown, di Chicago, un sito minerario della California di ventiseimila acri, contenente decine di milioni di dollari di carbone per soli 150 000 $. Una vendita privata per 1 milione di dollari di beni tedeschi confiscati nel 1948 a un gruppo formato dal suo migliore amico di sempre e socio Paul Ziffren giunse a valere 40 milioni di dollari nel 1954, e Ziffren ha subito ricompensato Bazelon con una quota del 9,2% della sua società immobiliare di diversi milioni di dollari. Un altro grande beneficiario di queste vendite di Bazelon dichiarò successivamente a un comitato di inchiesta del Congresso di aver donato a Bazelon una quota del 25 % della sua grande società alberghiera solo perché «si sentiva buono e generoso e gli era grato».
Questi doni fatti a Bazelon in modo occulto vennero poi scoperti solo grazie a riferimenti fortuiti individuati da analisti diligenti, cosicché è possibile che queste transazioni rappresentino solo la punta di un iceberg. Sembra plausibile che Bazelon abbia ricevuto tangenti per diversi milioni e, forse, per diverse decine di milioni in dollari attuali, in cambio della sua distribuzione estremamente generosa di attivi governativi per miliardi a una rete di beneficiari che avevano le sue stesse radici nel Chicago Syndicate.
Questo ampio trasferimento di ricchezze nei primi anni del dopoguerra ha fornito a tutti questi nuovi giunti da Chicago i mezzi finanziari per ottenere rapidamente il controllo sostanziale del sistema politico della California. Art White, veterano giornalista politico di Los Angeles, in seguito ha descritto la situazione in questi termini:
" In quegli anni, un centinaio di associati di Greenberg, Evans e altri del sindacato del crimine di Capone, e di Arvey e Ziffren, hanno speso centinaia di milioni di dollari in California. Hanno acquistato beni immobiliari, comprese catene alberghiere, attraverso società all’apparenza pulite, da San Diego a Sacramento. Hanno investito in vaste estensioni di terreno, costruito o comprato motel, immensi immobili di uffici e altre proprietà commerciali. Più importante ancora, hanno invaso il campo dei prestiti, creando banche e istituzioni di mutuo per gli alloggi. Nel 1953, Ziffren e i suoi associati avevano assunto il controllo di un immenso blocco dell’economia californiana. Potevano finanziare campagne politiche per i migliori baroni locali ".
Russo nota che gli analisti dello FBI hanno in seguito condiviso le conclusioni di White :
" Quando lo FBI ha esaminato le ricerche di White sui reali rapporti tra Capone e Ziffren, ha concluso con una rara dichiarazione che conferma l’analisi di White : «Il successo straordinario dell’avventuriero [Ziffren] – e lo stesso vale per i suoi uomini, provenienti dagli ambienti delinquenziali del Midwest e della costa Est – è stato provato e documentato»".
L’allegato A di Russo fornisce una lista lunga, ma parziale, delle principali proprietà acquisite dagli associati alla Supermob di Chicago.
Lo spossessamento dei Giapponesi statunitensi di origine californiana ha certamente costituito un fattore centrale nell’enorme crescita di ricchezza e potere dei mafiosi dello Stato, e Russo lo descrive come «uno stimolo inaspettato per la fortuna della Supermob». Ha forse del tutto ragione, ma vengono in mente anche altre possibilità.
Durante la Seconda Guerra mondiale, la California si trovava a migliaia di chilometri dal teatro di operazioni del Pacifico, mentre le Hawaï erano ovviamente molto più vicine e costituivano anche la base militare più attiva degli Stati Uniti; eppure la popolazione di origine giapponese che viveva in queste isole non ha subito simili incarcerazioni massicce. Il più importante leader repubblicano, il senatore Robert Taft, era assolutamente contrario all’arresto in blocco dei Giapponesi statunitensi, e lo era anche il direttore dello FBI, J. Edgar Hoover, poco noto come difensore delle libertà civili.
Nel frattempo, il primo e più eminente difensore della politica di internamento fu il procuratore generale della California, Earl Warren, che utilizzò questa questione politica con grande efficacia per battere il governatore democratico uscente alle elezioni del 1942. Ed è il caso di notare che la vittoriosa campagna elettorale del futuro governatore Warren è stata guidata da Chotiner, un avvocato di Beverly Hills con solidi legami col “mondo di sotto”, che divenne poi buon amico e talvolta partner commerciale di Korshak e di altri esponenti del Sindacato del crimine di Chicago.
Forse Warren e i suoi seguaci credevano semplicemente che demonizzare una piccola minoranza razziale impotente, e pretendere che fosse internata dietro una barriera di filo spinato, avrebbe aiutato a vincere le elezioni all’indomani di Pearl Harbor. Ma può darsi anche che abbiano pensato che la confisca di beni per miliardi poteva offrire possibilità di guadagno a individui senza scrupoli, possibilità che si sono pienamente realizzate solo qualche anno dopo.
I profitti finanziari segreti di Bazelon non sono stati l’unica ricompensa ch’egli ricevette per la sua generosa distribuzione di miliardi in beni controllati dal governo alla sua cerchia di ex associati al Capone Syndicate. Secondo il dossier di una Commissione del Congresso, Bazelon, nel 1946, avrebbe confidato ad una persona fidata che era molto inquieto per una inchiesta dell’IRS sul lavoro che egli aveva già in passato fatto per una grande azienda produttrice di birra controllata da Syndicate, e che gli occorreva «diventare giudice federale per tenerla sotto controllo». Quindi dopo la ri-elezione di Truman, Bazelon, per quanto privo di alcuna formazione giuridica o scientifica, venne nominato alla Corte d’Appello di Washington D.C., il più importante distretto giudiziario, diventando a quaranta anni il più giovane giudice federale della storia degli Stati Uniti. Il risultato si ottenne, nominandolo durante una sospensione delle sessioni del Congresso, e si evitò così un’indagine congressuale sulle voci inquietanti che già circolavano sulle sue disinvolte attribuzioni di beni del governo del valore di miliardi.
L’ex segretario di gabinetto di FDR, Harold Ickes, un fautore del New Deal e uomo di principi, reagì con una indignazione totale, denunciando la nomina di Bazelon come «deplorevole» e di «una bassezza inaudita» nelle pagine di The New Republic, e chiese l’apertura di una inchiesta del Senato sul modo in cui Bazelon aveva distribuito i beni confiscati. Come ex giornalista di Chicago, Ickes era stato a lungo un oppositore del Capone Syndicate e della corruzione, e scrisse anche personalmente a Truman in un ultimo tentativo infruttuoso di stroncarne la nomina: «Capita che ne sappia molto su Bazelon e lo consideri perciò del tutto inadatto al posto che attualmente occupa, e ancor di più al posto di giudice degli Stati Uniti, sia in Corte d’Appello che in una Corte distrettuale».
Prima di leggere il libro di Russo, io non avevo mai sentito parlare di Korshak, né di tutte le altre personalità che sembrano abbiano giocato un ruolo tanto importante nella conquista criminale della California, come Ziffren, Greenberg, Fred Evans, Al Hart, e Jake Factor. Ma Bazelon era per me un nome molto noto, perché diventò quasi due decenni dopo il giudice capo della più importante Corte d’Appello degli Stati Uniti, dove si affermò come il giurista probabilmente più influente al di fuori della Corte Suprema. Infatti, il giudice William J. Brennan, Jr. della Corte Suprema lo descrisse in seguito come «una delle figure giudiziarie più importanti del secolo».
In tutti gli articoli di giornali e magazine in cui si parla della lunga carriera di Bazelon, egli viene uniformemente descritto in termini estremamente favorevoli da giornalisti liberal o tradizionali, spesso definito come uno dei nostri più grandi difensori delle libertà civili, per il suo impegno appassionato a favore delle vittime di abuso o della repressione. Per contro, i conservatori lo hanno spesso criticato come un «liberal dal cuore che sanguina», il cui attivismo giudiziario favoriva eccessivamente i diritti dei criminali o dei malati mentali.
Ma, alla luce della vera storia dei suoi primi decenni, né l’una né l’altra di queste caratterizzazioni mi sembra del tutto plausibile e, in tutti questi anni e in nessuna delle accese controversie che si sono aperte, non è mai trapelata la minima allusione al suo orribile passato di corruzione personale e di militanza criminale a favore dei suoi ex colleghi del Capone Syndicate. Forse nessun giornalista e editore era al corrente dei fatti, o forse nessuno di essi ha avuto il coraggio di sollevare una questione così scabrosa. Quando è morto nel 1993, all’età di 83 anni, i necrologi apparsi sul New York Times e sul Washington Post non contenevano alcun riferimento al suo sordido passato e, nonostante la massiccia documentazione contenuta nel voluminoso libro di Russo del 2006, la pagina Wikipedia che lo riguarda non è stata integrata e non reca alcuna traccia di queste corruzioni.
Come ha fatto notare Russo con molta indignazione, le storie di quasi tutti gli amici di Bazelon e della Supermob, che ha assunto il controllo politico della California, sono state ugualmente ripulite e dimenticate, e quasi nessuno dei loro percorsi sordidi verso la ricchezza e il potere è stato raccontato dai media, e i necrologi luminosi pubblicati alla loro morte li hanno piuttosto esaltati come i migliori difensori delle libertà civili e tra i filantropi statunitensi più generosi. In una intervista rilasciata a Russo, Connie Carlson, ex capo degli investigatori sulla criminalità dei colletti bianchi del Procuratore Generale della California, ha sottolineato acutamente: «Non è interessante vedere come tutti questi «difensori delle libertà civili» siano finiti sulle terre giapponesi confiscate?»
Vediamo dunque che una piccola rete di ex elementi della criminalità organizzata di Chicago ha accumulato un grande potere politico in California, ancor prima che io nascessi, e l’ha utilizzato per favorire e proteggere i suoi piani finanziari corrotti. Infatti, nel 1978, il capo del Chicago Syndicate pare abbia reagito agli sconfinamenti del capo della mafia newyorkese Joe Bonnano raccontando a uno dei suoi scagnozzi: «Guarda questa puttana di Bonanno… vuole quello che appartiene a noi, quello che è sempre appartenuto a noi, la California. Non può avere l’Arizona, e meno che mai la California». Ma, siccome io crescevo in un mondo controllato da simili individui, non ho mai notato né sospettato qualcosa del genere.
La spiegazione di questo paradosso è evidente. I piccoli estorsori e gli intrallazzi municipali di modesta portata restavano per lo più confinati nella città ventosa e non si sono mai trasferiti stabilmente nei sobborghi tentacolari e prosperi della classe media, che spuntavano come funghi in tutta la California del dopoguerra. E l’assenza di queste manifestazioni visibilissime di corruzione locale e di criminalità organizzata nella nostra vita quotidiana ordinaria ha convinto la maggior parte di noi che simili attività fossero del tutto assenti nel nostro Stato. Non abbiamo mai sospettato che un piccolo gruppo di criminali dello stesso stampo si fosse insediato negli strati più alti della nostra società, ma con mire finanziarie molto più importanti, e protetti dai media locali timorosi o collusi. C’è da immaginare che i grandi gangster fossero felici che l’assenza di microcriminalità li abbia aiutati a conservare la loro invisibilità.
Diversi anni fa, ho pubblicato un articolo che faceva questa distinzione importante tra micro e macro corruzione:
" Tuttavia, sebbene la micro corruzione negli Stati Uniti sia rara, sembra che siamo invece vittime di spaventosi livelli di macro corruzione, situazioni nelle quali le nostre diverse élite dirigenti sprecano o si appropriano indebitamente di decine, addirittura centinaia di miliardi di dollari, della nostra ricchezza nazionale, a volte sul filo della legalità tecnica.
La Svezia è una delle società più progredite d’Europa, mentre la Sicilia è forse la più corrotta. Ma supponiamo che un grande clan di mafiosi siciliani si installi in Svezia e riesca ad impossessarsi del controllo del suo governo. Immediatamente, ben poco cambierebbe, i vigili urbani e gli ispettori edili svedesi continuerebbero a svolgere il loro lavoro con immutata efficienza incorruttibile, e immagino che il classamento di Transparency International della Svezia non subirebbe mutamenti. Ma, col tempo, una gran parte della ricchezza nazionale della Svezia potrebbe essere rubata e trasferita in conti bancari segreti delle Isole Caïmans, o investita in cartelli della droga latino-americana, e l’economia così saccheggiata potrebbe crollare".
Sebbene molte delle persone più giovani e più affamate che avevano cominciato la loro carriera come associati al Chicago Syndicate si sono trasferite in California, la maggior parte dei loro complici più ricchi sono rimasti a Chicago, pur avendo ampiamente approfittato della generosità di Bazelon. Queste famiglie sono oggi tra le più ricche degli Stati Uniti, e forti indizi di macro corruzione sembrano avere impregnato le loro attività attraverso le generazioni.
Come ho già detto, una delle prime suggestioni in cui mi sono imbattuto al riguardo del legami importanti di affari tra il “mondo di sotto” e le grandi imprese è stata l’occasionale menzione di Cockburn della importante partecipazione di Henry Crown in General Dynamics, finanziata dalla mafia, e il salvataggio finanziario da parte del Pentagono che egli organizzò. L’ascesa finanziaria della famiglia Crown di Chicago occupa un posto importante nel racconto di Russo, ben al di là dell’acquisto, nel 1947, di una immensa proprietà californiana da Bazelon per meno dell’1 % del valore del carbone che conteneva. Crown aveva avviato la sua impresa di approvvigionamento nel 1919, ottenendo sistematicamente lucrosi contratti governativi in un ambiente affaristico di Chicago nel quale si ricorreva abitualmente alle tangenti. Poi si arruolò nell’esercito durante la Seconda Guerra mondiale come agente di approvvigionamento. Mentre era in servizio, è stato responsabile di acquisti militari per circa un miliardo di dollari, e venne citato in giudizio dal governo per aver fatto la cresta, un mese soltanto prima delle sue dimissioni nel 1945. Russo racconta alcune delle transazioni con le quali i Crowns si sono grandemente arricchiti nel dopo-guerra, compreso il ricorso al sostegno finanziario del sindacato dei camionisti per fondere la loro impresa con General Dynamics, ottenendo una sostanziosa quota di proprietà. I Crowns valgono oggi quasi 9 miliardi di dollari, la metà circa dei quali è attribuibile alla loro quota del 10 % nell’enorme settore delle forniture militari.
Russo descrive anche come gli ancora più ricchi Pritzker di Chicago fecero in modo che Jay A. Pritzker, il discendente della famiglia, diventasse assistente di Bazelon nella gestione dei beni confiscati, e i conti di albergo di questo ricco ragazzo a Washington erano assolutamente incompatibili col magro salario governativo che gli veniva corrisposto. Gli inquirenti del Congresso hanno poi scoperto che aveva acquistato una società manifatturiera per una somma pari al 7 % del suo valore ma, tenuto conto dell’enorme donazione in azioni che suo padre fece poi a Bazelon, sembra probabile che molte altre transazioni di questo tipo non siano state scoperte. Diverse decine delle pagine del libro di Russo documentano i collegamenti col “mondo di sotto” di diverse generazioni di Pritzkers, cominciate poco dopo l’apertura da parte del padre fondatore del suo studio di avvocato nel 1902 a Chicago. Le attività correnti, estremamente diversificate, della famiglia Pritzker sono indicate all’allegato B di Russo, che occupa quasi sei pagine complete, e i Pritzkers restano ancora oggi una delle famiglie più ricche del nostro paese, con un patrimonio totale stimato in quasi 30 miliardi di dollari, e un enorme impegno nella politica recente.
Russo ha raggiunto la maggiore età all’epoca del Watergate, all’epoca del giornalismo di inchiesta, e uno dei suoi critici suggerisce che le sue tendenze ideologiche siano quelle della Nuova Sinistra. Un’affermazione plausibile alla luce deli suoi riferimenti critici, a volte violenti, contro le grandi imprese, Ronald Reagan, e la politica estera statunitense. Siccome la maggior parte dei membri della Supermob che si sono impadroniti del potere politico in California era composto da democratici schierati con l’ala liberal del partito, Russo sembra spesso a disagio nel segnalare che gli oppositori repubblicani conservatori hanno talvolta rivolto loro vanamente l’accusa di essere in collegamento con ambienti criminali, ma riconosce a malincuore che queste accuse erano nel complesso fondate.
Bazelon ha giocato un ruolo importante nel racconto di Russo e, tenuto conto delle tendenze ideologiche dell’autore, quest’ultimo ha scritto anche un paragrafo o due sulla sua lunga carriera di giudice di corte d’appello, e sembra approvare i suoi giudizi liberal innovatori a favore dei diritti dell’imputato e dei malati mentali. Ma, per quanto l’autore si renda ben conto dell’ipocrisia evidente di simili comportamenti, non tenta mai di esplorare direttamente quel che sembra essere una strana combinazione di interessi criminali diretti e di estremo altruismo sociale, entrambi presenti nello stesso individuo.
Un cinico occasionale potrebbe ironicamente suggerire che l’impegno indefesso di Bazelon per ampliare i diritti dei criminali mirasse a proteggere se stesso e la sua cerchia di amici del Syndicat, ma sembra poco plausibile. Il genere di transazioni finanziarie corrotte ed estremamente sofisticate nelle quali si erano specializzati erano rigorosamente mediate da avvocati esperti, e non c’era necessità di approfittare delle protezioni accordate a semplici ladruncoli o ai pazzi criminali. Da un altro lato, un idealista potrebbe immaginare che Bazelon abbia provato enormi rimorsi per le grandi fortune che lui e i suoi associati avevano accumulato con la corruzione e a costo della vita spezzata di 120 000 Statunitensi di origine giapponese innocenti, e le sue decisioni giudiziarie fossero un tentativo di espiare queste colpe. Io sono assai scettico che possa essere stato questo.
Un’altra suggestione alquanto cinica sarebbe che il suo lungo ruolo di leader nazionale in materia di diritti dell’uomo e di libertà civili mirasse a guadagnarsi la stima degli intellettuali liberal e dei media, impedendo in tal modo qualsiasi ulteriore tentativo di ripescare le prove schiaccianti raccolte dallo FBI sulle sue pratiche commerciali corrotte, il cui rapporto finale contava circa 560 pagine; e questa potrebbe essere la migliore spiegazione possibile. Con così tanta parte della giurisprudenza liberal fondata sulle decisioni di Bazelon, i suoi estimatori sarebbero stati estremamente reticenti a consentire che si discutesse della criminalità di uno dei suoi principali architetti.
Ma c’è una possibilità ancora più inquietante. Il personale medico e i tecnici di laboratorio portano in genere dei camici bianchi immacolati, di modo che anche la più modesta quantità di corpi estranei potenzialmente pericolosi possa essere visibile ed eliminabile. In una società nella quale il tasso di microcriminalità o di disordine sociale è assai basso, l’attenzione del pubblico si concentrerà naturalmente sul tipo di corruzione e criminalità finanziaria che costituiva l’attività regolare di Bazelon e del suo cerchio della Supermob, ed esso diventerà inevitabilmente il bersaglio principale dei servizi di repressione. Ma supponiamo che questa stessa società venga sommersa dal tipo di furti, aggressioni e stupri che suscitano maggior timore nell’opinione pubblica, o dal caos e disordine causati dai comportamenti pubblici di una gran quantità di persone con problemi mentali. Certamente, in tali condizioni, i cittadini pretenderebbero che le Autorità si occupassero soprattutto delle minacce più immediate alla sicurezza pubblica, senza prestare troppa attenzione ai crimini dei colletti bianchi commessi dagli avvocati.
Io non credo che questa ipotesi sia tanto implausibile come potrebbe apparire a prima vista. Negli ultimi decenni, la maggior parte della popolazione statunitense si è grandemente impoverita, con rapporti della Federal Reserve e di altri organismi che dicono che il 60 % della popolazione ha meno di 1 000 $ di risparmi disponibili e il 40 % nemmeno 400 $. Solo una generazione fa, gli studi universitari erano così poco costosi che molti studenti potevano coprire la maggior parte delle spese con lavoretti part time ma, oggi, il debito accumulato coi prestiti per gli studi supera i 1 500 miliardi di dollari e, col divieto legale di qualsiasi dichiarazione di fallimento per sfuggire a questo debito, questo gigantesco fardello ha creato un’intera giovane generazione schiava di un indebitamento permanente, che non ha i mezzi per sposarsi o per comprare la prima casa. La sanità statunitense è la più cara e la meno efficiente del mondo sviluppato, e questi costi impongono un enorme fardello parassitario al resto della nostra economia, oltre ad accrescere il serio rischio che un po’ di sfortuna possa rovinare in modo permanente le finanze di una famiglia ordinaria. Ma, mentre la maggior parte degli Statunitensi medi è diventata molto più povera, una minuscola élite finanziaria ha accresciuto le sue ricchezze oltre ogni comprensione.
Negli anni 1950 e all’inizio degli anni 1960, i candidati e le campagne elettorali si concentravano regolarmente sulle questioni economiche, e questo tipo di problemi economici estremi sarebbe stata certamente al centro della maggior parte della campagne politiche. Ma, ai giorni nostri, la politica è piuttosto dominata da questioni sociali altamente divisive e molto meno importanti sul piano pratico. L’ultimo esempio in ordine di tempo è la sbalorditiva concentrazione di energia attorno ai «diritti dei transgender», che ha un impatto solo su una minuscola parte della popolazione e che sarebbe stata da tutti messa in ridicolo come satira politica solo qualche anno fa. E’ così inverosimile ritenere che simili questioni siano state deliberatamente promosse come armi di distrazione di massa, dei parafulmini in grado di distogliere l’attenzione dalla semplice realtà che la maggior parte della gente è diventata molto più povera, anche se le nostre élite dirigenti hanno moltiplicato le loro ricchezze?
E la storia personale di queste élite è spesso notevolmente simile a quella di Bazelon e della sua rete corrotta di associati. Une élite dirigente la cui avidità, incompetenza e parassitismo hanno grandemente nociuto agli interessi delle masse, è molto vulnerabile, specialmente se una gran parte dei suoi membri proviene da una piccola minoranza autonoma. Ma se essa riesce a dividere la popolazione in tutta una serie di identità reciprocamente ostili, divise secondo linee ideologiche ed etniche, questa vulnerabilità si riduce fortemente.
Per quanto questa strategia politica molto cinica, ma generalmente coronata da successo, possa essere stata variamente attivata nel corso degli ultimi decenni, dubito che più di un’infima parte delle persone coinvolte ne sia cosciente. Dopo tutto, la maggior parte delle persone, e anche la maggior parte delle élite, tendono a credere in quel che sentono e leggono nelle fonti mediatiche di cui si fidano. Secondo i biologi, quasi tutti i pesci sistemati in un banco di pescheria si raggruppano per istinto tra loro, basta che uno o due si muovano in una certa direzione, che tutti gli altri seguiranno il loro esempio.
Non mi meraviglierebbe, quindi, che Bazelon e qualcuno dei suoi collaboratori più vicini abbiano consapevolmente intrapreso iniziative dirette a perturbare l’ordine della società statunitense per essere liberi di continuare nelle loro attività corrotte o criminali senza fastidi, proprio come i topi preferiscono una casa piena di detriti e spazzatura per nascondervi i loro nidi. Ma sembra del tutto plausibile che la maggior parte dei loro epigoni liberal abbiano poi perseguito queste stesse idee in perfetta inconsapevolezza dei motivi estremamente cinici che le aveva inizialmente ispirate.
Prendiamo le nipoti di Bazelon, Emily e Lara, rispettivamente giornalista e professoressa universitaria, delle quali ho regolarmente notato gli articoli nelle pagine del New York Times e di altre pubblicazioni di élite, articoli che promuovevano ogni sorta di cause e politiche liberal. Considerato che sono cresciute in un ambiente del tutto diverso, tendo a escludere che esse abbiano un casellario giudiziale somigliante a quello che il nonno aveva messo insieme mentre si arrampicava fino alla cima della nostra società. E non sarei affatto sorpreso di scoprire che non sanno nulla della sua storia oscura, come è capitato a me fino a poco tempo fa. Probabile che abbiano letto solo le stesse storie mediatiche sul loro nonno che avevo letto anche io, e che lo considerino un pilastro di rettitudine morale liberal, e che si siano fortemente impegnate a perseguire gli ideali e i principi che da ultimo egli aveva patrocinato. Di conseguenza, è molto possibile che alcune delle proposte che esse sostengono con zelo siano state concepite con intenti distruttivi della nostra società, ma che esse ignorino completamente questo fatto cruciale.
Le discussioni sui caratteri etnici sono estremamente delicate nell’attuale società statunitense, specie quando possano presentare ripercussioni sfavorevoli per gli ebrei. Per molti decenni, i nostri sistemi educativi e mediatici ci hanno profondamente condizionati a evitare simili questioni, anche quando sono chiaramente visibili, ma certi schemi diventano tanto evidenti che non possono essere evitati.
Nella mia lunga dissertazione sul saccheggio dei beni statunitensi-giapponesi confiscati, da parte di uomini strettamente legati alla Mafia, che hanno in seguito assunto il controllo politico della California, quasi tutte le persone che ho menzionato erano di origine ebraica, anche quelli dai nomi più anglosassoni.
E questa notevole asimmetria corrisponde al reale contenuto dello studio molto approfondito di 300 000 parole di Russo. Nonostante che anche alcune delle figure eroiche che hanno fatto tutto il possibile per denunciare e combattere il crescente potere della criminalità organizzate fossero ebree, soprattutto i giornalisti Seymour Hersh e Lester Velie detto «Colliers», la stessa origine etnica si ritrova in quasi tutti i membri di quella Supermob, il cui successo travolgente nella seconda metà del XX secolo si manifesta in modo deprimente nella storia raccontata da Russo. Quando si esaminano i principali beneficiari delle espropriazioni dei Giapponesi o gli ex del Syndicat che hanno conquistato il controllo politico della California, bisogna fare sforzi considerevoli per trovare un solo Gentile.
Per quanto sia rimasto molto sorpreso nello scoprire, nel primo libro di Russo, che quasi la metà dei personaggi della criminalità organizzata di Chicago erano ebrei, sono rimasto letteralmente sbalordito nello scoprire poi che erano ebrei quasi tutti i loro compari che sono riusciti a mettere insieme una ricchezza e un potere politico molto più importanti in California. E mentre tutti i gangster di Chicago sono sempre stati notoriamente dei gangster, la maggior parte dei loro omologhi californiani ben più ricchi ha visto il suo torbido passato accuratamente ripulito dai media, ed è stata sempre presentata coi caratteri degli uomini d’affari, di dirigenti politici o di filantropi molto ricchi.
Va tutto ad onore di Russo che non abbia taciuto questa realtà, presentando con franchezza le origini e gli antecedenti dei personaggi chiave di cui parla, e che la definizione di «Mafia» che richiama nella sua prefazione si riferisca alla «eredità ebraica russa» del «gruppo di uomini del Midwest… che ha fatto fortuna nell’Ovest statunitense del XX secolo con elementi noti della criminalità organizzata». Riassume poi la tesi centrale del suo testo affascinante:
" Due tipi di potere hanno dominato il XX secolo: quello visibile dei politici, i magnati del mondo degli affari, i capi della criminalità e le forze dell’ordine, e quello invisibile, concentrato nelle mani di alcuni mediatori del potere generalmente di origine ebraica o est-europea. Operando in tutta sicurezza nell’ombra, questi uomini tiravano spesso i fili degli esponenti del potere visibile. Per quanto siano rimasti anonimi agli occhi del pubblico, erano ben conosciuti da qualche inquirente intraprendente che, nel corso degli anni, ha ricostruito la loro brillante carriera, amorale e spesso criminale. Il rimpianto inquirente del Senato e scrittore Walter Sheridan li ha soprannominati la Supermob".
Quando ho cominciato a leggere il suo lunghissimo libro, vi avevo dato solo un’occhiata, ci sono ritornato dopo e l’ho trovata una sintesi estremamente precisa del suo documentatissimo studio.
Che Russo lo sappia o meno, da qualche secolo gli ebrei dell’Europa dell’est godono di un’unanime reputazione di criminali incalliti, specializzati in crimini di corruzione, contro la morale o finanziari. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, la schiacciante influenza ebraica nei media e nel mondo universitario ha cancellato del tutto questa realtà storica, proprio come le attività criminali della Supermob erano sparite quasi senza lasciare tracce prima della ricerca innovativa di Russo. Ma questa storia non avrebbe minimamente sorpreso gli Statunitensi avvertiti un secolo o più fa. Prima che la politica e i media ebraici si fossero pienamente consolidati, gli scrittori discutevano talvolta francamente di queste tendenze criminali, in modo che potrebbe sembrare molto sconveniente agli ingenui Statunitensi di oggi.
Nel 1908, l’ex generale Theodore Bingham era commissario di polizia della città di New York e, verso la fine dell’anno, pubblicò un lungo articolo sui criminali stranieri della sua città nel The North American Review, all’epoca uno dei nostri principali magazine intellettuali. Il suo argomentare sembrava assai prudente e imparziale, ma pure rilevava che, tra gli ebrei, vi era un tasso di criminalità tre volte superiore a quello del resto della popolazione, un numero considerevolmente più elevato di quello di qualsiasi altro gruppo etnico, compresi gli Italiani più pestiferi. Questa valutazione oggettiva sollevò un putiferio da parte delle organizzazioni ebraiche e, nonostante avesse subito presentato le sue scuse, Bingham venne comunque sommariamente licenziato pochi mesi dopo.
Nel 1913, E.A. Ross, uno dei nostri primi più grandi sociologi, pubblicò un’affascinante analisi dei diversi gruppi di immigrati. Rilevò i tassi elevati di incarcerazione degli Italiani, ma sottolineò che ciò era dovuto principalmente ad atti di violenza personale non legati ad attività criminali, nonostante la presenza della Mafia, e che – a onta dell’antica cattiva reputazione degli Irlandesi in materia di risse dovute all’abuso di alcool – il loro tasso di criminalità era sceso moltissimo rispetto a tutti gli altri gruppi col trascorrere di sole due generazioni dopo il loro picco di immigrazione. Per contro, nonostante avesse posto l’accento sulle grandi capacità degli ebrei, non poteva evitare di menzionare la loro notoria tendenza alla truffa e alla disonestà, con crimini predatori più gravi di quelli di tutti gli altri gruppi, e della loro abitudine di cercare di sottrarsi alle pene ricorrendo alla falsa testimonianza. Queste osservazioni franche da parte di Ross sono all’origine di molti decenni di ingiuste diffamazioni nei suoi confronti da parte dei più recenti storici ebrei.
Negli anni 1920, l’influenza dei media ebraici aveva raggiunto un tal punto che i giornali e i magazine erano diventati assai reticenti a rendere conto delle cose non buone di cui questo gruppo si macchiava, e questo fatto indusse il ricco industriale Henry Ford ad avviare la pubblicazione di The Dearborn Independent, un settimanale che ebbe una enorme diffusione nazionale, che si proponeva di sfidare questi crescenti tabù. In seguito Ford riunì gli articoli che trattavano dei misfatti ebraici e li pubblicò in quattro volumi col titolo di The International Jew. Nonostante la cattiva reputazione di questo libro, la maggior parte dei contenuti è composta da racconti piuttosto banali di corruzioni, criminalità e malversazioni finanziarie che sembrano non molto diversi da quelli che Russo ha documentato qualche decennio dopo.
Quando ancora era diffuso il senso religioso e del soprannaturale, prestare giuramento innanzi a Dio era consueto nei contratti commerciali e nei processi penali, e tracce di tali formule restano anche nelle moderne procedure. Qualche anno fa, rimasi molto scioccato nell’apprendere dal prof. Israel Shahak che gli Ebrei tradizionali celebrano ogni anno una cerimonia religiosa nel corso della quale i loro futuri giuramenti vengono in anticipo dichiarati nulli e come non prestati, liberandoli così da ogni obbligo. Questa scappatoia religiosa costituisce evidentemente un vantaggio concorrenziale importante per chi si dedica ad attività economiche disoneste, senza parlare della criminalità pura e semplice.
Nel 1997, Cambridge University Press ha pubblicato Esau’s Tears di Albert Lindemann, un saggio di 500 pagine sull’antisemitismo europeo del XIX secolo. Sulla base di prove storiche rigorose, l’autore ha posto in evidenza un modello molto diffuso di criminalità ebraica in Europa, e che la Francia del XIX secolo era stata scossa da enormi scandali finanziari provocati da ebrei immigrati, che impoverirono un gran numero di piccoli investitori. La situazione in Russia era ancora più grave.
" Siccome Lindemann descrive con franchezza le tensioni insorte tra la popolazione ebraica russa, che cresce molto rapidamente, e le autorità governative, non può evitare di menzionare la diffusa reputazione ebraica di truffatori, corruttori e persone generalmente disoneste, e che molte personalità di qualunque orientamento politico avevano notato che la rilevante propensione degli Ebrei allo spergiuro in Tribunale aveva procurato non pochi problemi all’amministrazione della giustizia".
Certe tendenze storiche restano rimarcabilmente costanti nel corso del tempo.
Ognuno di noi ha il suo campo di conoscenza e, naturalmente, tende ad accettare la narrazione convenzionale sulla maggior parte degli argomenti dei quali non ha diretta conoscenza. Prima di leggere i due lunghi saggi di Russo, gran parte della mia comprensione della criminalità organizzata statunitense, influenzata dai media, era stata completamente sbagliata.
Verso la fine del secondo volume, Russo osserva l’immensa ipocrisia che caratterizza la cerchia dei beneficiari ebrei di Bazelon, che si sono impossessati delle proprietà giapponesi poco dopo che i loro parenti tedeschi erano stati anch’essi vittime dei Nazisti. Nel passato, avrei annuito automaticamente dinanzi a questa evidente analogia, ma penso adesso che sia sbagliata.
Non molto tempo fa, mi sono imbattuto in un libro molto interessante scritto da Sir Arthur Bryant, uno storico influente la cui pagina di Wikipedia lo descrive come il favorito personale di Winston Churchill e di due altri primi ministri britannici. Aveva lavorato a quest’opera, “Unfinished Victory”, alla fine degli anni 1930, poi l’aveva un po’ modificata e pubblicata all’inizio del 1940, pochi mesi prima che la Seconda Guerra mondiale modificasse considerevolmente il paesaggio politico. Poco dopo ancora, con la guerra che diventava sempre più aspra, si scatenò una dura repressione contro le voci fuori dal coro della società britannica, così violenta che Bryant si allarmò per quanto aveva scritto e tentò di ritirare tutte le copie esistenti dalla circolazione. Ne consegue che i pochi esemplari disponibili in Amazon hanno un prezzo esorbitante ma, fortunatamente, il saggio è anche scaricabile gratuitamente su Archive.org.
Scrivendo prima che la «versione ufficiale» degli avvenimenti storici venisse determinata in modo rigido, Bryant descrisse la situazione interna difficilissima della Germania tra le due guerre mondiali, le sue problematiche relazioni con la sua minuscola minoranza ebraica, e le circostanze che favorirono l’ascesa di Hitler, fornendo una prospettiva molto differente su questi importanti avvenimenti da quella che ci viene offerta abitualmente dai nostri manuali scolastici.
Tra gli altri fatti sorprendenti, egli nota che, anche se gli Ebrei rappresentavano solo l’1% della popolazione totale, perfino cinque anni dopo l’arrivo al potere di Hitler e l’applicazione delle diverse misure antisemite, sembra possedessero ancora circa un terzo di tutti i beni immobiliari del paese, la maggior parte dei quali era stata acquistata da Tedeschi disperati e affamati nei terribili anni 1920. Quindi, una gran parte della popolazione tedesca (99%) era stata recentemente spossessata dai beni che aveva accumulato per generazioni, talvolta in virtù delle medesime pratiche finanziarie corrotte che Bazelon e i suoi amici avevano utilizzato per arricchirsi in California a scapito dei Giapponesi.
Quindi, per quanto Russo avesse ragione di credere che vi era una forte corrispondenza tra i fatti penosi di cui egli ha parlato in California e quanto era accaduto poco prima in Germania, l’analogia non è forse esattamente quella che lui crede di avere individuato.
Alla fine degli anni 1970, la mia trasmissione televisiva preferita era The Rockford Files, con James Garner nel ruolo di un simpatico investigatore privato di Los Angeles, e mi è dispiaciuto quando la serie è stata poi annullata alla fine del 1979. Un mio amico di università notò che la mascella quadrata e gli audaci atteggiamenti di Garner lo facevano assomigliare a un giovane Ronald Reagan, che era stato portato a enormi vette politiche per essere stato tanto utile a Lew Wasserman, la cui MCA-Universal era la produttrice anche del Garner’s show. Ma solo qualche anno fa, ho scoperto che lo svolgersi degli eventi e la determinazione dell’attore a difendere i propri diritti gli avevano riservato forse un destino del tutto differente.
Garner aveva accettato onorari relativamente bassi per ciascun episodio di Rockford in cambio di una quota sostanziale dei profitti complessivi, che si profilavano enormi. Ma, verso la fine della quinta stagione, scopri accidentalmente che, al di là della contabilità ufficiale, la serie estremamente popolare aveva accumulato perdite per 9,5 milioni di dollari e che era poco probabile che potesse alla fine realizzare profitti importanti. Garner aveva riportato molti danni personali nel corso delle riprese assai impegnative sul piano fisico, nelle quali faceva senza controfigura acrobazie, cazzottate e risse. Poco dopo, ha smesso di andare sul set perché il medico gli aveva prescritto cure immediate per un’ulcera emorragica, anche se MCA lo accusò di simulazione e NBC subito annullò la serie. Per quanto fosse rarissimo all’epoca che gli attori agissero in giudizio contro uno studio, Garner era sufficientemente ricco per farlo, e citò MCA per 20 milioni di dollari, sostenendo di essere vittima di una contabilità truccata, che l’aveva privato dei profitti che gli spettavano per contratto. Una vittoria in giudizio da parte di una vedette televisiva di primo piano avrebbe potuto essere un esempio per molte altre persone di Hollywood.
Una settimana dopo l’ultimo episodio di Rockford Files trasmesso dalla NBC, Garner guidava nell’ora di punta in Coldwater Canyon Drive, quando la sua auto veniva tamponata da un’altra. Quando scese per avere informazioni utili per l’assicurazione, venne immediatamente aggredito e gravemente picchiato dall’autista, che risultò poi essere un ex berretto verde, cosa che determinò un ricovero di 3 giorni in ospedale per l’attore cinquantunenne. Per una strana coincidenza, l’autista personale del presidente della MCA, Lew Wasserman, osservava la scena. Nonostante le gravi ferite riportate, Garner alla fine è andato avanti, vincendo poi la causa dopo otto anni di battaglie legali. Ma questo incidente insolito può aver consigliato ad altri attori di minor peso di pensarci bene prima di seguire l’esempio di Garner.
Stranamente, il pestaggio brutale di una delle più grandi star della televisione ha ricevuto molto meno attenzione di quanto potrebbe pensarsi, o almeno io non ne ho mai sentito parlare all’epoca, né nei decenni successivi, e l’ho appreso solo grazie al libro di Moldea sulla storia segreta della MCA. Inoltre l’aggressione sembra essere stata quasi del tutto cancellata in Internet, e le mie scarse competenze di Google mi hanno permesso solo di localizzare oscure fonti, come una copia PDF di un articolo di Associated Press nel Tuscaloosa News of Alabama, ma i dettagli sono forniti nelle memorie di Garner, The Garner Files, del 2011. E’ possibilissimo che l’incidente sia stato esattamente quello che pretendeva di essere, un’aggressione casuale e violenta che può capitare a chiunque, senza ragione né preavviso, anche a una vedette televisiva che ha un contenzioso con un grande studio con antichi e profondi legami con il Syndicat del crimine. Ma io penso che la storia starebbe benissimo nel racconto di Russo sugli esordi della MCA a Chicago negli anni 1930, quando i suoi dirigenti lavoravano in stretta collaborazione coi banditi di Al Capone.
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