I retroscena delle relazioni Iran-Stati Uniti
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La guerra in Medio Oriente, 15 gennaio 2020 - Una lettura certamente originale e controcorrente degli eventi in corso di svolgimento in Medio Oriente, firmata dal noto analista Thierry Meyssan (nella foto, il presidente Trump)
Voltairenet, 14 gennaio 2020 (trad.ossin)
I retroscena delle relazioni Iran-Stati Uniti
Thierry Meyssan
Ordinando l’omicidio in Iraq del generale iraniano Qassem Soleimani poco è mancato che il presidente Trump scatenasse la terza guerra mondiale. Questa almeno è la versione dell’opposizione USA e della stampa internazionale. Per Thierry Meyssan, invece, quanto accade dietro le quinte è ben diverso dallo show mediatico. Secondo lui, ci avviamo verso un ritiro militare concordato di Stati Uniti e Iran dal Medio Oriente
Due Paesi divisi
Le relazioni tra Stati Uniti e Iran sono d’altronde complicate da capire, trattandosi di due Stati profondamente divisi al loro interno:
1. Gli Stati Uniti sono governati dal presidente Donald Trump, ma tutti gli esperti rilevano che l’amministrazione federale rema contro, non esegue le sue istruzioni e partecipa alla procedura parlamentare in corso per la sua destituzione.
- Non si tratta di una semplice contrapposizione politica tra Repubblicani e Democratici, perché il presidente Trump non proviene dal partito Repubblicano, benché ne abbia ottenuto l’investitura. In campo c’è una profonda diversità culturale – la stessa che ha dato origine alle tre guerre civili anglosassoni (guerra civile britannica, guerra d’indipendenza statunitense e guerra di secessione). Essa contrappone oggi la cultura dei rednecks (la gente di campagna, bianca e del sud), eredi della “conquista dell’Ovest”, a quella dei puritani, eredi dei “Padri pellegrini” del Mayflower [1].
2. Vi sono due poteri concorrenti in Iran: da un lato il governo dello sceicco Hassan Rohani, dall’altro la Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei. Contrariamente a quanto vanno raccontando i media occidentali, non è questo o quel gruppo che paralizza il Paese, ma la guerra all’ultimo sangue tra questi due gruppi.
- Il presidente Rohani rappresenta gli interessi della borghesia di Teheran e di Isfahan, ossia dei commercianti interessati agli scambi internazionali, duramente colpiti dalle sanzioni USA. Lo sceicco Rohani è un amico di lunga data dello Stato Profondo statunitense: fu il primo ad essere contattato dall’amministrazione Reagan e da Israele nella vicenda Iran-Contras del 1985. Fu lui che presentò Hashemi Rafsanjani agli uomini di Oliver North, consentendogli in tal modo di acquistare armi, di diventare il comandante in capo delle forze armate – e, en passant, l’uomo più ricco del Paese – infine presidente della Repubblica Islamica. Lo sceicco Rohani venne scelto dall’amministrazione Obama e da Ali Akbar Velayati nel corso dei negoziati segreti tenuti in Oman nel 2013, per farla finita col nazionalismo laico del presidente Mahmoud Ahmadinejad e ristabilire le relazioni tra i due paesi.
- Invece la Guida della Rivoluzione è una figura creata dall’imam Ruhollah Khomeini, sul modello del saggio della Repubblica di Platone – non c’è niente di musulmano in tutto questo. L’ayatollah Khamenei dovrebbe controllare che le decisioni politiche non contravvengano ai principi dell’islam e a quelli della Rivoluzione antimperialista del 1978. E’ lui il capo dei Guardiani della Rivoluzione, di cui faceva parte il generale Qassem Soleimani. Dispone di un budget molto variabile, secondo le imprevedibili fluttuazioni delle entrate petrolifere. E’ quindi lui – e non il governo di Rohani – ad essere più colpito dalle sanzioni USA. Nel corso degli ultimi anni, si è proposto come un punto di riferimento per tutto il mondo islamico, invitando a Teheran tutti i capi religiosi e politici del mondo musulmano, compresi i suoi più feroci avversari.
La maggior parte delle decisioni prese dall’uno o dall’altro dei due poteri, tanto negli Stati Uniti che in Iran, viene immediatamente contestata da quello concorrente.
Un altro ostacolo che rende difficile capire quanto sta accadendo sono le bugie che entrambi i paesi hanno accumulato nel corso degli anni, alcune delle quali ancora attuali. Citiamo soltanto quelle evocate in questi ultimi giorni:
– Non c’è affatto stata una crisi degli ostaggi, nel 1979. Il personale diplomatico USA che venne fatto prigioniero, era stato arrestato in flagrante delitto di spionaggio. L’ambasciata di Teheran era il quartier generale della CIA per tutto il Medio Oriente. Non l’Iran, ma furono gli USA a violare le norme diplomatiche. Due marines di servizio all’ambasciata denunciarono le manovre della CIA; il materiale oggetto di spionaggio si trova ancora nei locali dell’ambasciata e i documenti ultra-segreti che vennero lì sequestrati sono stati pubblicati in oltre 80 volumi.
– La Repubblica Islamica dell’Iran non ha mai riconosciuto lo Stato d’Israele, ma non si è mai proposta l’obiettivo di sterminare la popolazione ebraica. Sostiene il principio “un uomo, un voto”, come valido anche per tutti i Palestinesi scacciati che hanno acquisito nazionalità straniera. Nel 2019, ha depositato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU un progetto di referendum per l’auto-determinazione, da tenersi nella Palestina geografica (ovvero sia in Israele sia nella Palestina politica).
– Iran e Israele non sono irriducibilmente nemici, perché utilizzano congiuntamente il gasdotto Eilat-Ashkelon, proprietà comune di entrambi gli Stati [2].
– L’Iran ha rinunciato alla bomba atomica nel 1988, quando l’imam Khomeini dichiarò le armi di distruzione di massa incompatibili con la propria visione dell’islam. I documenti rubati da Israele, e rivelati dal primo ministro Benjamin Netanyahu nel 2018, dimostrano che le ricerche successive hanno riguardato esclusivamente un generatore di onde d’urto (dispositivo peraltro necessario alla fabbricazione di un detonatore di bomba atomica) [3]. Non si tratta però d’un componente nucleare, bensì meccanico, destinato anche ad altri usi.
L’omicidio dell’eroe
Ciò detto, analizziamo l’uccisione del generale Qassem Soleimani e la crisi che ne è seguita.
Il generale Soleimani era un soldato eccezionale. Si è fatto le ossa durante la guerra di aggressione dell’Iraq (1980-1988). Le sue forze speciali, la sezione Al-Quds (Gerusalemme, in lingua araba e persiana), si sono mobilitate in aiuto di tutte le popolazioni del Medio Oriente vittime dell’imperialismo. Era per esempio a Beirut, al fianco del sayyed libanese Hassan Nasrallah e del generale siriano Hassan Turkmani, durante l’attacco israeliano del 2006. Soleimani sapeva distinguere tra “imperialismo” e Stati Uniti, negoziando perfino alleanze occasionali, come per esempio nel 2001, col presidente George Bush Jr, contro i talebani afgani. A partire dal maggio 2018, egli fu tuttavia autorizzato a battersi solo a sostegno delle comunità sciite. Violando il cessate-il-fuoco della guerra del 1973, ha lanciato attacchi contro Israele dal territorio siriano, mettendo in grande imbarazzo Damasco.
Il presidente Trump aveva certamente compreso il ruolo militare di Soleimani, agli ordini dell’ayatollah Khamenei, ma non il simbolo che era diventato e l’ammirazione di cui godeva in pressoché tutte le accademie militari nel mondo. Ha corso un grave rischio autorizzandone l’eliminazione e ha minato la propria reputazione in Medio Oriente. Infatti, per quanto da presidente degli Stati Uniti si sia sempre opposto al sostegno degli USA ad Al Qaeda e Daesh, si è adesso reso responsabile della morte di un uomo che aveva incarnato col proprio sangue questa lotta in numerosi teatri operativi. Non c’è troppo da insistere sul carattere illegale di questo assassinio. Rientra nella tradizione degli Stati Uniti sin dalla loro fondazione.
L’assassinio di Qassem Soleimani fa seguito alla designazione da parte di Washington dei Guardiani della Rivoluzione come «organizzazione terrorista» (sic). Gli iraniani condividono un forte sentimento di appartenenza a un solo popolo, a una sola civiltà. La morte di Soleimani ha perciò temporaneamente avvinto i due poteri concorrenti in una medesima. Milioni di Iraniani sono scesi nelle strade per i funerali del generale.
Solo quando è apparso chiaro che la morte di Soleimani non avrebbe scatenato la terza guerra mondiale, e solo allora, Israele ha rivendicato attraverso CBS di aver confermato al Pentagono la localizzazione del generale Soleimani e ha dichiarato al New York Times di essere stato informato dell’operazione in anticipo. Informazioni non verificabili.
La guerra non scoppierà
Tutti i media occidentali si sono preoccupati di spiegare i piani di risposta predisposti, da anni, dall’Iran. Ma né il presidente Rohani, né la Guida Khamenei hanno ragionato fondandosi su questi piani. Gli Iraniani non sono ragazzini che si prendono a pugni nel cortile della scuola. Sono una nazione. Entrambi hanno dunque reagito in funzione di quello che ritenevano fosse l’interesse superiore del Paese. Non bisogna quindi attribuire soverchia importanza alle dichiarazioni tonitruanti che invitano alla vendetta. Non ci sarà vendetta iraniana, esattamente come non ci fu vendetta di Hezbollah quando, nel 2008, Imad Mughniyeh venne assassinato a Damasco da Israele.
Per lo sceicco Rohani, indipendentemente dalla morte del generale Soleimani, è indispensabile riannodare i rapporti con Washington. Sinora il presidente iraniano ha considerato l’amministrazione Obama come l’interlocutore che gli aveva consentito l’accesso al potere, e Donald Trump come un incidente di percorso, destinato alla destituzione sin dall’inizio del mandato (Russiagate prima, Ucrainagate adesso). Ha quindi respinto i numerosi inviti di Trump alla negoziazione. Ma il presidente USA è ancora al proprio posto, e dovrebbe rimanervi per altri quattro anni. Colpita dalle sue sanzioni illegali, l’economia iraniana è crollata. La reazione di empatia internazionale all’assassinio illegale del generale Soleimani permette ora a Rohani di affrontare la negoziazione da posizione di forza, anziché d’inferiorità.
Agli occhi dell’ayatollah Khamenei, non solo gli Stati Uniti sono da un secolo predatori per l’Iran, ma Donald Trump non è uomo di parola. Non perché non abbia mantenuto quanto promesso, ma perché non ha adempiuto agli impegni del predecessore. L’accordo 5+1 era stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. l’Iran lo considerava legge scolpita nel marmo. Donald Trump l’ha invece stracciato, come del resto era suo pieno diritto fare. Accanto a questo accordo pubblico, un altro, segreto, precisava la ripartizione delle zone d’influenza in Medio Oriente. Donald Trump ha annullato anche questo secondo testo e intende essere lui a rinegoziarlo bilateralmente.
Subito l’Iran ha annunciato di non voler più rispettare l’accordo 5+1; mentre i deputati sciiti iracheni pretendevano che le truppe statunitensi lasciassero il Paese. Contrariamente a quanto hanno ritenuto i media occidentali, queste due decisioni non intendevano innescare una spirale, erano piuttosto un’offerta di pace. La partenza delle truppe USA, non soltanto dall’Iraq ma da tutto il Medio Oriente, è un impegno preso da Donald Trump durante la campagna elettorale. Da solo, non può però realizzarlo a causa dell’opposizione interna nella sua amministrazione. L’Iran adesso gli dà una mano.
Le manifestazioni anti-iraniane in Libano e Iraq, nonché quelle contro il regime in Iran sono bruscamente cessate.
La potente lobby petrolifera statunitense si è schierata con il presidente Trump rimettendo in discussione la “dottrina Carter”. Nel 1980 il presidente Jimmy Carter aveva affermato che il petrolio del Golfo era indispensabile all’economia USA. Conseguentemente, il suo successore creò il CentCom e il Pentagono garantì alle imprese USA l’accesso al petrolio del Golfo. Ma oggi gli Stati Uniti sono indipendenti dal punto di vista energetico. Non hanno più bisogno del petrolio del Golfo e quindi non hanno più necessità di dispiegare le proprie truppe nella regione. La sfida si è spostata su un altro piano: il problema non è più appropriazione del petrolio arabo-persiano, ma controllare gli scambi petroliferi mondiali.
I leader politici non hanno saputo adattarsi allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Parlano troppo e troppo in fretta. Assumono posizioni da cui non sanno poi retrocedere. Avendo proferito inverosimili propositi di vendetta, i Guardiani della Rivoluzione dovevano in qualche modo reagire, ma responsabilmente, senza aggravare la situazione. Hanno perciò scelto di bombardare due basi militari USA in Iraq senza fare vittime. Proprio come Francia, Stati Uniti e Regno Unito, dopo aver espresso condanna per il preteso uso di armi chimiche da parte della Siria, avevano alla fine bombardato una base militare senza causare vittime (pur provocando un incendio che uccise dei soldati e dei civili nelle vicinanze della base).
Lo Stato Profondo USA, che ha malconsigliato Trump, ha fatto intervenire sulla prima rete televisiva iraniana una voce che esortava a uccidere il presidente Trump. Ha promesso 80 milioni di dollari di ricompensa. Cosi, qualora il presidente venisse assassinato, non occorrerebbe un’inchiesta: l’Iran sarebbe ritenuto colpevole a priori. Tuttavia, quando l’imam Khomeini lanciò una fatwa contro Salman Rushdie, non promise alcuna ricompensa: mettere una taglia sembra piuttosto metodo da Far West.
Nel momento di maggiore crisi, i Guardiani della Rivoluzione hanno abbattuto per errore un aereo di linea ucraino, decollato da Teheran. L’ambasciatore del Regno Unito ha in seguito organizzato a Teheran una piccola manifestazione per chiedere le dimissioni dell’ayatollah Khamenei. L’episodio cambia le carte in tavola perché priva la milizia del vantaggio di essere vittima.
Va da sé che gli Stati Uniti non concederanno nulla senza contropartita. Il loro ritiro militare si farà solo in coordinamento con il ritiro militare iraniano. Il generale Qassem Soleimani incarnava precisamente il dispiegamento militare iraniano. E’ questo doppio ritiro attualmente al centro dei negoziati. Già stiamo assistendo ad un ripiegamento USA dalla Siria e dall’Iraq verso il Kuwait. L’episodio della lettera inviata, e subito annullata, dal generale William Sheely III, che annunciava la partenza delle truppe USA dall’Iraq, dimostra che i negoziati sono in corso.
Le condizioni per la pace possono essere fissate sin da ora, ma non potranno essere messe in atto subito.
– Durante il lutto per il generale Soleimani l’Iran non può ammettere pubblicamente di aver concluso un accordo con il suo assassino.
– Un accordo avrà validità solo se approvato da Iraq, Libano, Siria, Turchia e, ovviamente, Russia (il Regno Unito, malgrado la sua agitazione, non è in grado di farlo fallire). Sarà quindi opportuno presentarlo con una conferenza regionale.
Qassem Soleimani sarebbe fiero della propria vita, se la sua morte servisse a ristabilire la pace nella regione.
Note:
[1] “Gli Stati Uniti si riformeranno o si lacereranno?”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist (Italia) , Rete Voltaire, 26 ottobre 2016.
[2] “Israele e Iran sfruttano insieme l’oleodotto Eilat-Ashkelon”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 3 gennaio 2018.
[3] "Shock Wave Generator for Iran’sNuclear Weapons Program:More than a Feasibility Study », David Albright and Olli Heinonen, FDD, May 7, 2019. (PDF - 4.3 Mo).
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