Il diritto all’autodeterminazione: una variabile di aggiustamento congiunturale
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En point de mire, 26 febbraio 2013 (trad. Ossin)
Il diritto all’autodeterminazione: una variabile di aggiustamento congiunturale
René Naba
I due pesi e due misure dell’Occidente
Salvo errori o omissioni, i Palestinesi e i Saharawi dovrebbero essere i due ultimi popoli del mondo ad essere assoggettati ad una dominazione di tipo coloniale. Indubbiamente a causa dei due pesi e due misure dell’occidente a proposito di un principio fondamentale del Diritto internazionale Pubblico, il Diritto all’autodeterminazione dei popoli, paradossalmente sempre deriso dai suoi promotori.
Questo principio, peraltro intangibile, viene applicato a seconda delle circostanze tanto da essere diventato una variabile di aggiustamento congiunturale in funzione degli interessi delle grandi potenze occidentali, che sono state a lungo il gruppo egemonico della geostrategia mondiale. Valido qualche volta in qualche luogo, inoperante altrove e in altri momenti.
Il conflitto del Sahara occidentale ha fatto amara esperienza di ciò, così come il conflitto palestinese. Il diritto all’autodeterminazione, il principio di base del conflitto, risente della flessibilità con cui viene applicato. Se assume pieno vigore e piena giustificazione quando si tratta di promuovere sulla scena internazionale delle entità conformi agli interessi dei paesi occidentali, viene paradossalmente combattuto o negato quando si tratta si eradicare ogni velleità nazionalista o indipendentista di stati che si collocano fuori dalla sfera di influenza occidentale.
Uno studio diacronico che combinasse i dati spaziotemporali sulla questione rivelerebbe comportamenti che sfuggono a ogni razionalità e in contraddizione col più elementare senso di giustizia.
Il risultato è sbalorditivo: George Bush aveva assicurato al tempo della sua presidenza (2000-2008) che era stufo di attendere da dieci anni che il Kosovo ottenesse l’indipendenza. Come per incanto, subito dopo questo grido d’amore, un colpo di bacchetta magica, più simile a un’impostura che alla prestidigitazione, conferiva al Kosovo l’indipendenza, che in realtà faceva parte di un più ampio progetto mirante a completare lo smembramento dell’ex Federazione Iugoslava, un forte ostacolo all’espansione economica occidentale nell’Europa centrale.
E’ stato lo stesso per il Sud Sudan, un nuovo stato petrolifero e amico di Israele sul corso del Nilo. Un dato non da poco, quando in queste zone si va profilando una guerra dell’acqua, a causa degli sconvolgimenti climatici.
Il diritto all’autodeterminazione ha così creato due micro Stati - il Kosovo e il Sud Sudan – per puntellare l’egemonia occidentale di fronte alla crescita della potenza della Cina.
In un simile panorama, due casi – il Tibet e i Curdi – fanno eccezione, nel senso che nel primo caso, quello del Tibet, gli Stati Uniti se la vedono con un bersaglio situato nella sfera geostrategica della Cina e, nel secondo caso, quello dei Curdi, con un alleato degli USA, la Turchia, sentinella avanzata della NATO sul fianco sud.
Nel caso del Tibet, gli Stati Uniti sostengono gli autonomisti tibetani nelle loro rivendicazioni, ma stanno bene attenti a non sfidare la potenza cinese nella sua riserva. Il sostegno degli occidentali al Dalai Lama costituisce tutt’al più uno strumento di pressione che possa servire come moneta di scambio con concessioni economiche o diplomatiche cinesi.
Nel caso dei Curdi, truppe ausiliarie degli Stati Uniti nel corso dell’invasione USA dell’Iraq nel 2003, che si illudevano di ottenere uno Stato come ricompensa della loro collaborazione, non è stato loro riconosciuto a causa dell’ostilità della Turchia ad un progetto che avrebbe potuto destabilizzarla per la presenza di un forte sentimento irredentista curdo sul suo territorio.
La soluzione mediana alla fine approvata dai Curdi – una zona di larga autonomia nel nord curdofono dell’Iraq - se è tale da soddisfarli solo parzialmente, entusiasma gli USA in quanto l’enclave curda ingloba i ricchi campi petroliferi di Kirkouk, per soprammercato legata economicamente e militarmente a Israele.
La soluzione è provvisoria. Molti ad Ankara e Washington nutrono l’ambizione di costituire un’entità indipendente curda sulle rovine della Siria, nel nord del paese, nella zona di Jisr al Choughour, che possa unificarsi col Kurdistan iracheno, assicurando anche allo stato curdo uno sbocco sul mare. I disordini in Siria, certamente originati dagli abusi del potere baathista, sono alimentati dall’esterno con un obiettivo secondario. La soluzione della questione curda per smembramento della Siria, come era già avvenuto nel caso di Alessandretta e del Libano.
Il Kosovo ha atteso 10 anni per l’indipendenza, ma la Palestina attende da 65 anni, senza che gli occidentali si commuovano per la sua sorte.
Perché una tale duplicità? Al di là del debito degli Occidentali per il genocidio ebraico e delle considerazioni bibliche, Israele – la scelta della creazione dello stato di Israele non è stata casuale – è situata nella intersezione tra la riva asiatica e la riva africana del Mondo arabo, nel punto di giunzione tra la strada continentale delle Indie e la rotta marittima, il bacino siro-palestinese e il suo prolungamento egiziano, nel punto di convergenza delle vie d’acqua del Medio oriente (Giordano, Oronte, Hasbani, Zahrani) e dei giacimenti petroliferi della penisola arabica.
L’esistenza di Israele, grazie alla sua collocazione geografica, segna strategicamente la rottura della continuità territoriale dello spazio arabo. Per sfortuna del popolo palestinese, che paga il prezzo di questa impresa di delocalizzazione del ricorrente antisemitismo della società occidentale, e per la più grande sfortuna degli Arabi, espropriati della possibilità di costituire una massa critica che possa pesare nelle relazioni internazionali.
Ma ciò che è buono per il Kosovo e il Sud Sudan non lo è né per la Palestina né per il Sahara occidentale. E la discriminazione non è casuale: i Palestinesi si contrappongono a Israele, i Saharawi al Marocco, il principale alleato sotterraneo di Israele.
Non è indifferente notare in tale contesto che il Kosovo e Israele sono i due unici paesi al mondo creati per decisione unilaterale. L’indipendenza è stata dunque accordata in funzione degli interessi strategici. Il conflitto del Sahara non sarebbe certamente durato tanto se esso non servisse a mettere contro e indebolire due paesi a beneficio della strategia egemonica occidentale tanto USA che francese nella zona, e soprattutto se non costituisse un eccellente stimolante per le industrie delle armi.
Un conflitto che grava sul bilancio dello stato, stimolante per le industrie di armi
Il Marocco è il paese africano che spende di più per armamenti. Quasi 2,8 miliardi di euro vengono spesi ogni anno per l’esercito marocchino e rappresentano il 15% del bilancio dello Stato, il doppio di quanto spende per la sanità. Le necessità militari del Marocco assorbono il 5% del PIL e per questo esso si colloca tra i 20 paesi che spendono di più per l’esercito. Così, tenendo conto della crescita del PIL, il Marocco spende più di 7 milioni di euro al giorno per la difesa. Tra i grandi ordinativi, registriamo due squadriglie di F16, oltre all’ammodernamento di 27 Mirage F1 francesi per 400 milioni di euro, una fregata francese Fremm per 470 milioni di euro, tre elicotteri USA CH-47D per 93,4 milioni di euro, quattro aerei da trasporto tattico C-27J Spartan dall’Italia per 130 milioni di euro e 1200 blindati spagnoli per 200 milioni di euro.
L’Algeria è il secondo importatore di armi del continente, dopo l’Africa del Sud, secondo il rapporto 2010 del SIPRI, l’Istituto internazionale di ricerca per la pace con sede a Stoccolma. L’Algeria destina il 3% del PIL alle spese militari, ciò che rappresenta circa 4,5 miliardi di euro per il 2011.
Il perfezionamento da parte dell’Algeria di un contratto per l’acquisto di una sessantina di aerei da combattimento con la Russia nel 2006 ha suscitato una immediata reazione di Rabat, che si è affrettata a ammodernare la sua flottiglia di Mirage F-1 vetusti ed a concludere lo straordinario contratto degli F 16 con Lockheed Martin, la benedizione di Washington e l’aiuto tecnologico israeliano.
Il bilancio militare algerino cresce di circa il 10% all’anno. Somme colossali sono quindi spese da questi due paesi, nei quali il settore militare occupa il primo posto in termini di spesa pubblica.
La prova di forza tra l’Algeria e il Marocco: un conflitto di due memorie
Il Marocco dispone di due atout incomparabili nella sua prova di forza con l’Algeria. E’ infatti, con la Giordania, il migliore alleato sotterraneo di Israele nel mondo arabo. Per approfondire il tema delle relazioni Marocco-Israele, vedi: http://www.renenaba.com/le-collier-de-la-reine
La sua diplomazia corruttrice della Mamounia frena ogni velleità intellettuale critica della classe politica francese. Il Marocco è infatti la destinazione preferita della classe politica francese, dove non meno di una quarantina di personalità di primo piano sono soliti trascorrere vacanze parassitarie a spese del Regno.
L’ex presidente Jacques Chirac, a Taroudant, nel sud del paese, fino all’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI) Dominique Strauss Kahn e lo scrittore mediatico Bernard Henri Levy che sono degli habitué. Nicolas Sarkozy, il Presidente della Repubblica, vi ha trascorso le vacanze di Natale nel 2009 e nel 2010, nella residenza reale di Jinane Lekbir (il grande giardino), a tre chilometri da Marrakech. Il suo ex avversario socialista del 2007, Ségolène Royal, vi ha soggiornato anche lei nel 2010 col suo compagno André Hadjez in un “Palazzo di Ouazazate” nel sud del paese. Cresciuto in parte ad Agadir, Dominique Strauss Kahn possiede un ryad e una casa di lusso a Marrakech, dove trascorre qualche giorno di vacanza durante le feste.
Jean Louis Borloo ha, anche lui, scelto il regno dello Sceriffato per le vacanze del 2010, come la coppia Balkany, Isabelle e Patrick Balkany, sindaco di Levallois e parente di Nicolas Sarkozy. La lista è lunga. Include Hervé Morin (e 18 membri della sua famiglia all’Hotel Es-Saadi di Marrakech) e Brice Hortefeux e naturalmente Philippe Douste Blazy, ex ministro degli affari esteri che fu protagonista di uno scandalo.
L’afflusso di questi turisti di un genere particolare rallegra la stampa marocchina. Gli inviti speciali sono l’asso nella manica della diplomazia dello Sceriffato per sedurre i politici francesi. La pratica è stata eretta a politica dello Stato. La si chiama “diplomazia Mamounia”, dal nome del celebre palazzo di Marrakech, proprietà dello stato marocchino, che accoglie da sempre le più grandi celebrità del pianeta. Dopo che Yves Saint Laurent e Pierre Bergé hanno lanciato la moda dei ryad, queste ricche dimore arroccate nel cuore delle medine marocchine, il Marocco ha conosciuto una vera e propria invasione gallica. Più di 5000 francesi, per la maggior parte in pensione, vi hanno stabilito la propria residenza, dopo la messa in onda, nel 1999, su M6 di una trasmissione della serie Capital che vantava il fascino di Marrakech, Tangeri, Essaouira, Fes o Agadir. Ma se il Marocco è diventato una destinazione privilegiata dei Francesi, esso lo è soprattutto per gli “amici del Regno”. Alcuni vi hanno perfino dei legami genealogici, come Elisabeth Guigou, Dominique De Villepin, Rachida Dati o Eric Besson.
Ma la “tribù Marocco” va ben al di là. Essa è per così dire tentacolare. Da Bernard Henri levy a Thierry de Beaucé, molti dirigenti politici, imprenditori, intellettuali mediatici e celebrità dello showbiz possiedono a Marrakech o altrove una residenza secondaria.
“Il più bel paese del mondo”, come lo definisce una pubblicità dell’Ufficio marocchino del turismo diventa così un luogo di incontri cult per la classe politica francese, dove sarebbe quasi augurabile la delocalizzazione di un Consiglio dei ministri durante le feste di fine anno, ironizzava un deputato.
In molti casi lo charme esotico del paese costituisce l’arma segreta dell’influenza marocchina sulle alte sfere dell’Esagono. Queste vacanze, certo private, sono anche troppo spesso occasione di contatti più o meno informali con il cerchio magico del Re. Inviti speciali, “prezzi di favore” applicati in luoghi di piacere gestiti da uomini vicini al Potere, costituiscono pratica corrente. Questi regalini sono d’altronde sistematicamente fatti ai VIP della Repubblica.
La Mamounia è la carta vincente di questa politica di seduzione del Makhzen, il potere feudale marocchino. Tutti sono ricevuti con le attenzioni particolari che il Marocco riserva ai suoi ospiti di rango. Le schifezze di MAM (Michèle Alliot-Marie, la ministra degli esteri di Sarkozy che faceva le vacanze in Tunisia a spese dell’uomo di affari Aziz Miled, molto vicino a Ben Ali, ndt) in Tunisia con l’uomo d’affari Aziz Miled potrebbero essere di monito contro una tradizione che è ben radicata.
Acrobata della strategia occidentale in Africa, braccio armato dell’Arabia Saudita nella protezione dei regimi vergognosi, come quello del satrapo zairota Mobutu, questo regno della galera e del terrore cui si concede tutto, che si è preso gioco della sovranità francese ordinando il rapimento di Mehdi Ben Barka, il capo carismatico dell’opposizione marocchina, in pieno centro a Parigi con la complicità dei servizi francesi, che ha ridicolizzato Charles De Gaulle, il più illustre leader francese, pure sarà celebrato come un paradiso terrestre sotto l’occhio vigile del “gruppo di Oujda”, animato da Maurice Levy, patron di Publicis, il grande gruppo della comunicazione francese. Il Marocco fonda la propria rendita di posizione sul ruolo di base di ripiegamento per lo Stato francese, assegnato al Regno dagli strateghi occidentali all’apogeo della guerra fredda nel caso di un nuovo crollo francese di fronte all’avanzata sovietica.
Ma questo Regno sovrano è un paese afflitto dalle servitù. Il comandante dei credenti non comanda sul suo Stretto, lo stretto di Gibilterra, che assicura il collegamento tra l’Oceano Atlantico e il mar Mediterraneo, come testimonia l’incidente dell’isolotto Perejil.
Si aggiunge poi, nel caso del conflitto del Sahara, un dato particolare, un conflitto tra due memorie. Perché i due paesi non hanno raggiunto l’indipendenza allo stesso modo e non hanno subito la stessa esperienza coloniale.
La storia dell’Algeria è una storia di dolore. Ben prima dell’uso dei gas nelle grotte di Tora Bora nel 2001 in Afghanistan, Bugeaud (Thomas Robert Bugeaud, generale francese, ndt) aveva usato il gas in tutta l’Algeria.
La storia algerina è stata molto più dolorosa di quella marocchina, non fosse altro che per la sua durata, e per l’imposizione del regime amministrativo degli indigeni in Algeria, uno dei principali motivi dell’acculturamento algerino, che ha suscitato per reazione un nazionalismo suscettibile, specialmente per ciò che concerne la Francia.
132 anni di colonialismo in Algeria, contro trentasei anni di protettorato francese in Marocco, vale a dire il quadruplo, con –in finale – il bagno di sangue di Setif, simbolo della vittoria della Seconda Guerra mondiale, una guerra di indipendenza durata otto anni col suo seguito di un milione di morti e di una lobbie di “pied noir” algerini, vale a dire di ex coloni francesi in Algeria, che non si è vista in Marocco e in nessuna delle altre ex colonie francesi, spiegano e giustificano l’estrema reattività algerina a qualsiasi attacco alla propria sovranità o ai principi della guerra di Liberazione nazionale.
La storia marocchina è stata diversa. C’è stata certo la guerra del Rif, ma il protettorato francese sul Marocco è durato infinitamente meno del colonialismo francese in Algeria ed è stato più blando a causa della complicità di una parte della monarchia, soprattutto il Glaoui di Marrakech.
Al conflitto della memoria si aggiungono i diversi orientamenti, tanto sul piano internazionale che su quello interno. Uno dei drammi del mondo arabo sta nel fatto che i due monarchi più istruiti della loro generazione – Hassan II del Marocco, laureato alla Facoltà di Diritto a Bordeaux, e Hussein di Giordania, diplomato all’accademia militare britannica di Sandhurst – invece di far tesoro del modernismo per la promozione dei loro popoli e dei loro paesi, hanno strumentalizzato il modernismo al servizio di un assolutismo retrogrado.
La balcanizzazione del mondo arabo e la necessità di una linea critica
Ferita aperta che lo frena, il Mondo arabo soffre di una balcanizzazione, l’ultima delle quali in odine di tempo, nel 2011, è stata l’amputazione del Sud Sudan dal Sudan in spregio ai principi dell’intangibilità delle frontiere coloniali.
Prima, l’amputazione della Palestina con l’impianto di una entità occidentale, Israele, alla congiunzione tra la riva africana e la riva asiatica del mondo arabo, la separazione del Libano dalla Siria, l’amputazione del distretto di Alessandretta dalla Siria e il suo inglobamento nella Turchia, infine il Kuwait dall’Iraq e la Transgiordania (l’attuale Giordania) dalla Cisgiordania.
Fonte di debolezza, di fronte alle grandi unioni dei suoi vicini, come l’Unione Europea, la frammentazione del mondo arabo dovrebbe spingerlo a impegnarsi non per la divisione e la disunione, ma per l’unione.
La costituzione di un’unione risolverebbe il problema del Sahara Occidentale con l’intesa e la cooperazione, con la conseguenza di realizzare un ponte tra i due grandi paesi del Maghreb centrale, l’Algeria e il Marocco, piuttosto che mantenere aperta una ferita che impedisce ogni progetto transarabo.
La costruzione di un Grande Maghreb non dovrebbe restare un punto di vista. Esso deve concretizzarsi , se necessario con l’ausilio del forcipe, per solidificare il ventre molle del Mediterraneo, prima tappa verso una più ampia unione che raggiunga un livello critico, comprendente l’Iran, la Turchia, l’Iraq, la Siria, il Libano, la Palestina, l’Algeria, il Marocco, l’Egitto, la Libia e il Sudan. Un insieme di 500 milioni di abitanti, equivalenti a 27 paesi dell’Unione Europea, che aggreghi sunniti e sciiti, cristiani e mussulmani, arabi, turchi, iraniani, berberi, curdi in un mosaico umano creativo, non una guerra intestina distruttiva.
E’ anormale a questo proposito che un convoglio umanitario proveniente dall’Europa verso Gaza debba ottenere una serie di autorizzazioni, dall’Algeria, il Marocco, la Libia e l’Egitto.
Un’era si chiude, un’altra se ne apre. Oltre l’ascesso malieno, dovuto alla talebanizzazione del settentrione malieno, la confederazione deve essere l’obiettivo maggiore per fare fronte alle tendenze centrifughe della zona, attizzate dai particolarismo regionali, gli irredentismi e gli sciovinismi religiosi.
Il dato libico
La legittima soddisfazione per la caduta di un dittatore non può però occultare il pasticcio strategico provocato dalla distruzione di un paese all’incrocio tra Machreq e Maghreb e il fatto che sia stato collocato sotto il giogo della NATO, il più implacabile avversario delle aspirazioni nazionali del Mondo arabo.
Atto strategico di grande spessore, paragonabile all’invasione USA dell’Iraq del 2003, il cambio di regime politico in Libia, ottenuto con l’attacco occidentale, sembra desinato in primo luogo a neutralizzare gli effetti positivi della “primavera araba”, nella misura in cui accredita l’alleanza atlantica come il gendarme assoluto delle rivendicazioni democratiche dei popoli arabi.
Quarantadue anni dopo la loro espulsione dalla base USA di Wheelus AirField-Okba Ben Nafeh (Tripoli) e dalla base inglese di Al Adem-Abdel Nasser (Bengasi) gli Anglosassoni hanno rimesso piede in Libia per farne la più importante piattaforma operativa della contro-rivoluzione araba, la zona di subappalto per eccellenza della lotta contro l’immigrazione clandestina verso l’Europa occidentale, la sede occulta dell’Africa Command per il controllo del Maghreb e la lotta contro AQMI nel Sahel.
In questo nuovo quadro, la Libia e il Marocco sembrano dover svolgere il ruolo delle due ganasce di una tenaglia destinata a stringere l’Algeria.
La diversificazione delle fonti di armamento dell’Algeria, con la Germania (14 miliardi di dollari in 10 anni), il Regno Unito e l’Italia, in aggiunta alla Cina e alla Russia non sarà sufficiente. L’immobilismo è mortale per l’Algeria. Cinquanta anni dopo l’indipendenza, la generazione dei Mujaheddin è giunta al capolinea.
Se non vuole essere marginalizzata, se non vuole che il paese si sclerotizzi, se non vuole che la rivendicazione saharawi vada in cancrena, l’Algeria di deve mettere in sintonia con i nuovi gruppi dirigenti vicini, riattivando le relazioni una volta strategiche con l’Egitto al tempo del tandem Nasser-Boumedienne, con l’obiettivo di stabilizzare la Libia e sottrarla agli effetti centrifughi delle rivalità interne, favorendo una convergenza col movimento di contestazione marocchino, per un nuovo approccio alla soluzione del conflitto del Sahara.
Sul fianco sud dell’Europa tenuto nelle reti della mondializzazione, vi è oramai un mondo ribelle, nella sua ex riserva di caccia, una zona che aveva destinato a fare da argine allo sfondamento cinese in Africa, e da luogo di esternalizzazione della politica di lotta contro l’immigrazione selvaggia arabo-africana.
All’indomani della primavera araba del 2011, la più grande sfida del mondo arabo è di portare la dinamica contestatrice nei paesi monarchici, curiosamente risparmiati dalla contestazione, soprattutto le petro-monarchie del Golfo, il focolare dell’integralismo e della regressione sociale, che si trovano ad essere peraltro i principali alleati del Marocco nel conflitto del Sahara Occidentale e contemporaneamente gli alleati obiettivi di Israele nella questione palestinese.
La soluzione del conflitto palestinese e del conflitto saharawi sembra dover passare attraverso un riequilibrio dei rapporti inter-arabi, la messa sotto accusa delle petro-monarchie, preludio ad una modificazione radicale delle loro alleanze internazionali, soprattutto la loro incondizionata fedeltà agli Stati Uniti, i protettori di Israele.
Nel decennio 1970-1980, mentre il Libano serviva da guerra diversiva rispetto al processo di pace in corso Israele-Egitto, la pressione si è concentrata sulla Siria e l’Algeria al fine di spezzare la determinazione dei due principali esponenti del “Fronte del rifiuto arabo” alle manovre di USA e Israele nella zona. La crisi cardiaca del presidente siriano Hafez Al Assad, nel 1976, nel pieno dell’assedio al campo palestinese di Tall el Zaatar nella banlieue est di Beirut, ha fatto intravvedere una breccia per una redistribuzione delle carte su scala regionale. La sua guarigione, seguita dalla malattia fatale del presidente algerino Houari Boumedienne, nel 1979-1980, ha fatto privilegiare l’obiettivo di destabilizzazione dell’Algeria, con il finanziamento con fondi sauditi del proselitismo islamico.
L’adesione della dinastia wahabita alla coalizione occidentale anti-Saddam Hussein ha un po’ allentato i legami tra gli islamisti algerini e i loro padrini sauditi, senza peraltro che ciò ponesse termine alla guerra intestina che ha sconvolto l’Algeria per dieci anni, determinando la sua emarginazione al livello della diplomazia regionale araba.
Lo stesso schema sembra oggi riprodursi con la costituzione di un argine petro-monarchico contro-rivoluzionario con l’adesione del Marocco e la Giordania, i due grandi alleati di Israele, al Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Salvo a volersi rassegnare al fatto compiuto, il blocco repubblicano arabo dovrebbe lavorare alla realizzazione delle condizioni di un Fukushima politico sulle petro-monarchie, soprattutto l’Arabia Saudita, il cuore nucleare dell’integralismo mondiale e della regressione sociale, allo scopo di raggiungere una maggiore coerenza sociale ed economica tra i due versanti del mondo arabo, la zona mediterranea di penuria e la zona di abbondanza del Golfo petrolifero, con il risultato di stabilire un rapporto di forze a lui favorevole in vista anche di una soluzione del conflitto in Sahara occidentale e gli altri punti del contenzioso arabo.
E per i Saharawi di rompere l’isolamento e realizzare una maggiore sensibilità al loro problema nel mondo arabo. Perché “non vi può essere vittoria politica senza una preliminare vittoria culturale” (Antonio Gramsci).