Egitto e Siria: rivelazioni sull'agenda segreta di Erdogan
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Invest'Action, 22 gennaio 2014 (trad. ossin)
Rivelazioni sull'agenda segreta di Erdogan
Nicola Nasser (*)
L'esplosione del conflitto siriano a inizio 2011 annunciava la fine della strategia ufficialmente propugnata dalla Turchia degli "zero problemi coi vicini", ma più ancora ha rivelato l'esistenza di una "agenda segreta" nella politica estera turca sotto la presidenza del Primo Ministro Recep Tayyip Erdogan...
E' quella che Sreeram Chaulia, il decano della Scuola degli affari internazionali Jindal nel Sonipat dell'India, descrive come una "insidiosa agenda nascosta" (1) ideologicamente dissimulata come "islamista".
Ma, ad una analisi più approfondita, si rivela essere un neo-ottomanismo che utilizza, allo stesso tempo, l'islamizzazione e l'eredità di Mustafa Kemal Ataturk sul piano della politica interna e straniera della Turchia a livello regionale, come uno strumento per la rinascita di quanto un tempo era l'impero ottomano.
Invocando l'antico splendore imperiale del suo paese, il ministro degli affari esteri Ahmet Davotoglu ha scritto: "Come nel sedicesimo secolo... faremo nuovamente dei Balcani, del Caucaso e del Medio Oriente, con la Turchia, il centro della politica mondiale nel futuro. E' l'obiettivo della politica estera turca e noi lo raggiungeremo".
L'obiettivo per il 2023 dell'AKP - il partito al potere di Erdogan - come proclamato nel corso del suo recente quarto congresso generale sarebbe: "una grande nazione, una grande potenza" (2). Erdogan ha invitato la gioventù turca a considerare non solo il 2023, ma anche il 2071 come il momento in cui la Turchia "raggiungerà il livello dei nostri antenati Ottomani e Selgiuchidi nell'anno 2071" (Discorso già pronunciato nel dicembre scorso).
"Nel 2071 ricorreranno i mille anni dalla battaglia di Manzicerta", quando i Turchi Selgiuchidi hanno sconfitto l'Impero bizantino e segnato l'avvento dell'Impero Ottomano, secondo Fradkin e Libby".
Ahmet Davutoglu
Circa sei mesi fa, Davotoglu si sentiva tanto fiducioso e ottimista da ritenere che "era oramai finalmente possibile ridiscutere l'ordine imposto" dagli accordi di Sykes-Picot del 1916, concluso tra gli Inglesi e i Francesi per spartirsi i territori arabi dell'Impero Ottomano.
Davotoglu sa benissimo che il pan-arabismo ha lottato fin da allora, e fino ad oggi inutilmente, per unificarsi in un'unica nazione e sbarazzarsi dell'eredità degli accordi di Sykes-Picot, ma non per restaurare l'impero ottomano di prima. E sa anche che i movimenti politici islamisti come la Confraternita Internazionale dei Fratelli Mussulmani (MBI) e Hizb-ut-Tahrir al-Islami (Partito islamico di liberazione) sono stati fondati, rispettivamente, in Egitto e in Palestina come risposta alla caduta del califfato islamico ottomano.
Tuttavia i riferimenti islamisti di Erdogan non possono essere considerati semplicemente come una impostura. I suoi precedenti, il suo governo del paese come le sue pratiche all'interno dell'ufficio politico dal 2002, oltre alle politiche regionali dall'esplosione del conflitto siriano tre anni fa, rivelano che egli crede davvero alla sua versione dell'islam come ad uno strumento utile per perseguire la sua agenda ottomana.
Erdogan tenta evidentemente di reclutare i mussulmani come i "soldati" che si batteranno, non per l'islam in sé, ma per le sue ambizioni neo-ottomane. Nel dicembre 1997 venne chiesta contro di lui una condanna a dieci mesi di prigione per avere recitato un poema: "Le moschee sono le nostre caserme, le loro cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i credenti i nostri soldati". Il poema venne considerato come una violazione del kemalismo dal potere giudiziario laico.
Ingannevole "finestra di opportunità"
Eppure il machiavellismo di Erdogan non trova alcuna contraddizione tra il suo approccio islamista e la sua promozione del "modello turco", che vende ciò che viene definito l'islam sunnita "moderato" nell'ambito dello Stato laico e liberale di Ataturk, entrambe come una alternativa agli stati religiosi tribali conservatori della penisola araba e il rivale settario costituito dalla teocrazia conservatrice sciita in Iran.
Ha percepito nel recente ritiro statunitense dal Medio Oriente in favore dell'Oceano Pacifico il risultato di un vuoto di potenza regionale che gli offriva una opportunità storica di occupare il posto vacante.
Gunter Seufert scriveva per l'Istituto tedesco Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP), il 14 ottobre scorso: "L'indebolimento dell'Europa e il declino di influenza degli Stati uniti nella regione del Medio Oriente" sono stati visti dalla leadership del partito al potere di Erdogan "come una nuova occasione di fare della Turchia un influente attore regionale".
Gli Stati Uniti e Israele, che hanno reclutato la Turchia contro l'Iran, hanno anch'essi coltivato l'illusione di leadership regionale di Erdogan. Si sono ingannati, ritenendo in modo irrealista che la Turchia avrebbe potuto opporsi ed evitare l'emergere dell'asse internazionale russo e degli attori regionali, dell'asse iraniano come dei protagonisti tradizionali che sono l'Egitto e l'Arabia Saudita, senza parlare dell’Iraq e della Siria, nel caso riuscissero a sopravvivere alla loro crisi interna.
Certamente i suoi alleati della Confraternita internazionale dei Fratelli Mussulmani (MBI) e il suo machiavellico sostegno logistico appena velato ad Al Qaida e alle organizzazioni terroriste che gli sono legate non sono e non saranno un contropotere.
Egli ha dapprima concentrato la sua influenza tra il popolo arabo sulla promozione del "modello turco", soprattutto durante i primi mesi della sedicente "primavera araba", che definisce come il modello da seguire e che spera sarà seguito dalle masse in rivolta, cosa che gli attribuirebbe il ruolo di mentore regionale e di capofila.
Ma mentre l'esplosione del conflitto siriano lo costringe a rivelare la sua "agenda segreta" islamista e la sua alleanza coi Fratelli Mussulmani, la estromissione di questi ultimi dal potere in Egitto nel luglio scorso, con tutte le conseguenze geo-politiche regionali che comporta, favorita dall'altro pezzo forte del mondo arabo che è l'Arabia saudita, lo ha colto di sorpresa e dissipato le sue ambizioni di leadership regionale, ma soprattutto ha rivelato la sua "agenza segreta" neo-ottomana e lo ha spinto ad abbandonare tutte le pretese laiche e liberali della sua retorica di "modello turco".
Un idolo arabo, niente di più
Erdogan e il suo ingegnere della politica estera Davotoglu hanno così tentato di sfruttare l'adozione araba e mussulmana della questione della Palestina come l'elemento centrale delle loro priorità in politica estera.
Dopo l'incontro di Erdogan col presidente israeliano Shimon Peres durante il Summit economico di Davos nel gennaio 2009, l'attacco israeliano contro la nave di aiuti umanitari turca a Gaza, la Mavi Marmara nel 2010, e l'invito discreto rivolto dalla Turchia al movimento di resistenza islamica "Hamas" a Gaza, durante l'operazione israeliana "Piombo fuso" (2008-2009) e quella "Pilastro di difesa" del 2012, il Primo ministro turco è diventato l'idolo arabo che è stato invitato a partecipare al summit e alle riunioni ministeriali della Lega araba.
Tuttavia, in interviste rilasciate a Research Turkey, la filiale turca della CNN, e ad altri media, Abdullatif Sener (3) ha posto in evidenza il machiavellismo di Erdogan e posto in dubbio la sincerità e la credibilità dei suoi atteggiamenti pubblici islamici, arabi e palestinesi.
"Erdogan agisce senza preoccuparsi della religione perfino in certe questioni fondamentali, ma invia messaggi religiosi precisi... Io non ritengo che il partito AKP sia un partito islamista, piuttosto è un partito che raccoglie consensi utilizzando i discorsi islamici", ha dichiarato Sener, aggiungendo che "il ruolo in Medio oriente gli è stato attribuito" e, ancora, che "un forte sostegno logistico" agli islamisti che hanno "effettuato atti terroristi" in Siria "viene fornito dalla Turchia" del signor Erdogan.
In una intervista rilasciata alla CNN turca, Sener ha lanciato una bomba quando ha sostenuto che i contrasti dell'AKP con Israele erano "controllati". In pieno boicottaggio diplomatico di Israele, parecchi appalti sono stati affidati a società israeliane e la Turchia ha accettato di accordare a Israele lo status di partner della NATO: "Se l'idea dell'AKP è quella dello scontro con Israele, allora perché assicurano vantaggi a Israele?". In altra intervista, ha dichiarato che i sistemi radar della NATO istallati a Malatya stanno lì per proteggere Israele contro l’Iran.
Abdullatif Sener
Sener ha evidenziato che quello che guadagnerebbe di più dalla caduta del governo siriano del presidente Bachar al-Assad sarebbe Israele, perché essa indebolirebbe Hezbollah libanese e l'Iran, ma la Turchia di Erdogan è il più ardente fautore di un cambio di regime in Siria, ha detto.
La politica siriana di Erdogan ha suonato il rintocco funebre della sua strategia di "zero problemi coi vicini"; il bagno di sangue provocato dai terroristi nel conflitto siriano ha relegato questa strategia nel dimenticatoio.
La storia di Liz Sly nel Washington Post del 17 novembre ha evidenziato come le sue politiche siriane "siano andate di traverso" e si siano dimostrate controproducenti "consentendo per la prima volta che Al Qaida si installasse sulle frontiere (turche) della NATO".
Con l'alleanza coi Fratelli Mussulmani, ha escluso l'Egitto, l'Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti, oltre ad altri pezzi forti arabi come la Siria, l'Iraq e l'Algeria ed è finito col rimanere con "zero" amici nella regione.
Secondo Gunter Seufert, la politica straniera globale della Turchia, e non solo sulla Siria, "ha sbattuto contro un muro" perché la direzione del partito al potere del signor Erdogan "ha letto i cambiamenti politici mondiali attraverso le lenti deformanti di una ideologia" (quella islamista).
Troppo tardi per fare marcia indietro
Ora sembra che la Turchia di Erdogan "faccia prudentemente marcia indietro" in politica estera, ha dichiarato Seufert. "Vuole riannodare" con l'Iran e la "richiesta di Washington di interrompere il sostegno ai gruppi radicali in Siria non è rimasta inascoltata".
"Il ristabilimento dei rapporti" con l'Iran e il governo iracheno (sciita) allontanerà per primi i Sauditi, che non potranno certo tollerare il ristabilimento di queste relazioni così come anche col loro alleato storico e strategico statunitense, in quanto essi erano già furiosi per l'alleanza di Erdogan coi Fratelli Mussulmani finanziati dal Qatar e sponsorizzati dagli Stati Uniti, i Sauditi non hanno esitato a rischiare pubblicamente un disaccordo col loro alleato USA sulla destituzione dei Fratelli Mussulmani in Egitto, cinque mesi fa.
In tale quadro, vi è stata la recente visita di Davotoglu a Bagdad, che "ha posto in evidenza la necessità di una grande cooperazione tra la Turchia e l'Iraq contro il conflitto sciita-sunnita". Inoltre egli ha "personalmente" voluto "trascorre ogni anno il mese di Muharram (il primo mese del calendario islamico, ndt) a Karbala e Najaf (i luoghi santi sciiti iracheni) con i nostri fratelli (sciiti)". (4)
Nel medesimo contesto di "ristabilimento dei rapporti", la settimana scorsa, è venuto Erdogan a fare le parti dell'ospite con il presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, non ad Ankara ma a Diyarbakir, che i Curdi turchi venerano come loro capitale, così come Kirkouk per i Curdi iracheni.
Tuttavia, il giorno stesso della visita del signor Barzani, Erdogan ha escluso la possibilità di accordare ai Curdi turchi il loro diritto universale all'autodeterminazione, quando ha indicato, quale soluzione per il conflitto turco in Turchia, la "fraternità islamica", mentre il suo vice, Bulent Arinc, annunciava che "l'amnistia generale" per i detenuti curdi "non è all'ordine del giorno". Tre giorni prima, il 15 novembre, il presidente turco Abdullah Gul, aveva dichiarato: "La Turchia non può consentire il fatto compiuto" di dichiarare una autonomia provvisoria curda lungo le sue frontiere sud con la Siria, quando le politiche controproducenti del suo primo ministro hanno permesso ad Al Qaida di assumere il controllo della parte nord-est del territorio siriano.
Il neo-ottomanismo di Erdogan, forte della sua ideologia settaria islamista, ha avuto per effetto sia di aggravare la frattura tra sciiti e sunniti, sia anche tra Siriani, Iracheni, Egiziani, Emirati, Arabi sauditi e libanesi, Curdi, Armeni, Israeliani, Iraniani e anche tra la Turchia e i liberali e i laici della regione. La sua politica estera è in rovina, con un prezzo economico pesante come dimostra la recente svalutazione del 13,2% della lira turca nei confronti del dollaro USA.
Una "marcia indietro" forse troppo tardiva per consentire a Erdogan e al suo partito di vincere le prossime elezioni locali del marzo prossimo e quelle presidenziali che seguiranno nell'agosto 2014.
Note:
1. http://rt.com - 15 settembre, 2013
2. Citato da Hillel Fradkin e Lewis Libby, nell'edizione di marzo/aprile 2013 di www.worldaffairsjournal.org
3. E' uno dei fondatori del partito AKP di Erdogan, che è stato vice primo ministro e ministro delle finanze in diversi governi dell'AKP per circa sette anni, prima di rompere con Erdogan nel 2008.
4. www.turkishweekly.net, 13 novembre 2013
(*) Nicola Nasser é un giornalista arabo che vive a Birzeit, in Cisgiordania, nei territori palestinesi occupati da Israele. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Traduzione: ossin
Fonte : nicolanasser.newsvine.com