Considerare Trump come un sintomo
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Oumma, 22 gennaio 2018 (trad.ossin)
Considerare Trump come un sintomo
Bruno Guigue
Il chiacchiericcio incessante degli osservatori sulle stramberie di Trump, la litania mediatica sulla sua “imprevedibilità” e il suo “dilettantismo”, l’attenzione ossessiva sulle sue sbruffonate, quando non sono esplicite insinuazioni sulla sua salute mentale (come se il vincitore di una elezione presidenziale potesse essere “un po’ tocco”), insomma la logorrea che caratterizza l’ordinaria trumpologia ha un grosso inconveniente: dispensa i suoi autori dall’impegnarsi in una vera analisi politica. Difetto ripetuto del commentario dominante, questa psicologia da bar impedisce di vedere nella politica di Trump altro, se non un insieme di incoerenze, un’accozzaglia senza progetto; non consente di scoprirvi più che una deriva suicida, come se gli USA si stessero rovinando con le proprie mani, guidati da un capitano forsennato.
La questione centrale posta dalla politica di Trump, tuttavia, è di altra natura: al di là della personalità delirante – o supposta tale – del presidente, di cosa questa politica è il sintomo? Cosa ci dice sull’evoluzione degli Stati Uniti e del loro ruolo nel mondo? Per potere abbozzare una risposta a questa questione, bisogna partire dal punto di avvio. Gli USA godono dal 1945 di un privilegio straordinario, che venne messo in discussione dallo scontro con il comunismo, e poi ristabilito nel 1991 col crollo dell’URSS : essi occupano il centro di una economia-mondo del quale detengono la moneta ; il loro PIL surclassa quello degli altri paesi ; la loro tecnologia domina il pianeta ; la loro potenza militare, infine, resta senza rivali. Per le élite USA, questo privilegio eccezionale è qualcosa di normale, che rientra nell’ordine delle cose : è un’ulteriore conferma del “destino manifesto” della nazione, che fornisce alla rapacità di queste stesse élite il “supplemento di forza d’animo” che le autorizza ad una predazione senza limiti del resto del mondo.
Ma dopo il fallimento dell’intervento in Iraq (2003-2007) e il ruzzolone delle ambizioni neocon, tutto fa pensare che questo “ordine delle cose” stia cambiando. Minato da contingenze avverse, il “destino manifesto” si dilegua, e l’illusione di una egemonia illimitata nel tempo e nello spazio svanisce. Attribuendo la causa del “declino statunitense” all’incoerenza confusionaria del presidente eletto nel 2016, la maggior parte degli osservatori, in realtà, confonde la causa con l’effetto. Ciò che ha messo in difficoltà gli USA non è la politica di Trump. E’ esattamente l’inverso : se la politica di Trump è una politica sconclusionata, infatti, è proprio perché gli USA perdono terreno. Si potrebbero fare molti esempi. Il candidato repubblicano ha vinto sparando a zero sulla mondializzazione liberale. Ma che cosa poteva fare poi, una volta eletto ? Gettare alle ortiche una globalizzazione degli scambi su cui Wall Street ha costruito la sua insolente prosperità? Rinunciare a un modello che Washington impone a profitto delle sue multinazionali da mezzo secolo?
Salvo il ritiro dal “Transpacific Trade Partnership” (TTP), la politica della nuova amministrazione si è limitata sul punto a dichiarazioni di principio, talvolta condite con minacce rivolte a Pechino, puramente retoriche e poco in grado di far tremare le mura della Città Proibita. La Casa Bianca sa bene che qualsiasi re-introduzione del protezionismo comporterebbe misure di ritorsione che penalizzerebbero le imprese USA. Per un paese il cui debito federale detenuto da investitori esteri ha preso letteralmente il volo, giocare col fuoco potrebbe essere pericoloso, soprattutto nei confronti di un paese (come la Cina) creditore degli USA a un livello abissale. L’economia USA è in fondo presa in trappola da una mondializzazione di cui è stata a lungo il motore entusiasta e la principale beneficiaria. Chiaramente la ruota ha girato. Ma è troppo tardi per cambiare le regole del gioco solo perché gli altri hanno imparato a loro volta a vincere.
La Cina intanto prosegue nella sua ascesa folgorante, seguita dall’India che diventerà nel 2018 la quinta potenza economica del pianeta, relegando la Francia al sesto posto. Rispondendo alle critiche di Trump, Pechino si concede perfino il lusso di cantare le lodi del libero scambio. E’ vero che la Cina può permetterselo: è il primo esportatore del pianeta, mentre gli USA sono il primo importatore. L’economia USA ha ancora importanti risorse, ma la sua quota di PIL mondiale si reduce. Nel 2025 la Cina peserà per il 21%, gli USA per il 16%. Nel 2050, la Cina sarà al 33% e gli USA al 9%. Quando le ombre cinesi oscurano l’orizzonte, il “sogno americano” prende le forme di un incubo. Su tre operai USA, negli ultimi 30 anni, il primo è stato sostituito da un robot, il secondo da un operaio cinese, e il terzo teme di fare la fine dei due precedenti. L’elezione di Trump è il risultato di questa inquietudine, ma è anche chiaro che la sua politica non sa porvi rimedio.
Il problema non è tanto capire se gli USA cederanno il primo posto: questo è certo. Si tratta solo di capire quando, perché è imminente. L’unico problema è di capire in quali condizioni avverrà questa transizione inevitabile. La manifesta imprevedibilità di Trump, la sua febbrile agitazione, i comportamenti istrioneschi, tutto questo complesso di atteggiamenti è come un sintomo nevrotico. Tradisce l’angoscia di una superpotenza che sente il terreno cederle sotto i suoi piedi, e cerca di esorcizzare i segnali di crisi affidandosi alle battute. Il lento e grave declino della produzione materiale “made in USA” può essere arrestata con un sussulto geopolitico ? Trump cerca di raccogliere la sfida, ma si imbatte ogni volta in limiti oggettivi. Questa impotenza conferisce inevitabilmente alla sua politica un’aria di déjà-vu, proprio mentre tenta a tutti i costi di smarcarsi dai suoi predecessori e restaurare l’immagine di una Great America che finalmente ritorna.
Diceva per esempio di volerla smettere con l’infelice mania di ergersi a giustiziere del mondo, ma continua lo stesso a fare la morale a tutti. Criticando la Russia, la Cina, la Siria, l’Iran, la Corea del Nord, Cuba e il Venezuela, persevera sulla via dell’ingerenza in ogni forma, inanellando accuse assurde (“l’Iran sostiene il terrorismo”) e provocazioni sterili (il “bando antimussulmano”). Con lui, il vecchio fa continuamente capolino sotto il nuovo. Invoca allegramente la “comunità internazionale” e il diritto dello stesso nome, ma offre all’occupante sionista un regalo promesso a Netanyahu su pressione della lobby: il riconoscimento di Gerusalemme occupata come capitale di Israele. Esalta i “diritti umani” per stigmatizzare gli Stati che non gli piacciono, ma nel frattempo consolida un’alleanza con Riyadh, che è una condanna a morte per i bambini yemeniti affamati dal blocco e schiacciati sotto le bombe. Col suo governo, la formula del principe di Salina nel “Gattopardo” si applica perfettamente alla diplomazia USA : “Bisogna cambiare tutto perché niente cambi”.
Certamente il Pentagono ha imparato la lezione del doppio fiasco iracheno-afghano, e, da un anno, non si impegna in nessuna operazione militare di una qualche consistenza. Trump non è George W. Bush, e il suo rapporto coi neocon è complesso. Si dice talvolta, per discolparlo, ch’egli vorrebbe fare una politica diversa, ma gli viene impedito dall’influenza dello “Stato profondo”. Se questa interpretazione fosse vera, denoterebbe una sconcertante ingenuità dell’attuale presidente. Ignorava il peso delle strutture del “Deep State” prima di assumere le funzioni? Non aveva alcuna idea dell’influenza congiunta e tentacolare delle multinazionali delle armi e delle agenzie di sicurezza? Che la direzione di questo grande paese sia un esercizio di equilibrismo sembra più conforme alla realtà, e lo “Stato profondo” contribuisce da parte sua ai compromessi essenziali a misura del suo peso – esorbitante – all’interno delle sfere dirigenti. Trump non è un ostaggio involontario di un apparato occulto e potentissimo, ma il collaboratore più esposto di questo apparato, il mandatario designato di una oligarchia, di cui il “Deep State” rappresenta allo stesso tempo lo strato più influente e meno trasparente.
Anche se c’è stato qualche colpo di scena (come la recente caduta in disgrazia di Steve Bannon), questa permeabilità della presidenza all’influenza dello “Stato profondo” spiega la relativa continuità della politica estera, da una presidenza all’altra, sulle questioni di interesse strategico. In Siria, per esempio, Washington continua a fare danni usando sia la carta terrorista che quella curda. Il segretario di Stato Rex Tillerson ha giustificato la presenza di 2000 militari in questo paese con la necessità di favorire “le dimissioni di Assad” e per “contrastare l’influenza dell’Iran”. Questo esplicito riferimento al “regime change” è rivelatore, come anche l’ostilità dichiarata all’Iran, cavallo di battaglia di Donald Trump. Ma ci sono poche probabilità che questa spedizione militare in miniatura ottenga i risultati sperati. Quando l’esercito siriano avrà sottomesso le ultime sacche takfir, partirà alla riconquista dell’est della Siria, e gli yankee, come al solito, faranno fagotto. Washington voleva distruggere lo Stato siriano, ma è stato un sonoro fallimento. Trump deve bere l’amara pozione della sua disfatta, e la sua politica ha l’aria di un’operazione di retroguardia.
Pressato dallo “Stato profondo”, l’inquilino della “White House” assicura l’assistenza post-vendita di una politica di cui non può rinnegare le premesse senza dare l’impressione di capitolare. Invece di usare l’artiglieria pesante, si limita a mandare delle banderilla a chiunque si muova. Ieri il conglomerato takfir, oggi le “Forze democratiche siriane”, a costo di provocare un alleato turco che ha appena invaso l’enclave di Afrin per regolare i conti con le milizie curde armate da Washington. Incredibile fabbrica di complicazioni, alla fine la politica USA avrà sperimentato tutto in Siria. I loro protetti eliminati uno dopo l’altro, gli USA sono oramai condannati a fare da tappezzeria mentre la Russia guida il ballo. Gettano quindi legna in un braciere che altri – i signori Assad, Rohani e Putin – alla fine spegneranno per promuovere lo sviluppo del loro paese, e non – come gli USA – per rovinare la vita delle altre nazioni. Può ben disporre il Pentagono di un budget di 626 miliardi di dollari, gli Stati Uniti escono vinti dal più importante scontro del decennio.
Molestato sul dossier siriano, Donald Trump ha comunque tentato, all’inizio di gennaio 2018, di esercitare la sua capacità di nuocere su un altro fronte. Offrendogli le manifestazioni in Iran un'altra finestra di tiro, il miliardario della Casa Bianca ne ha subito approfittato, mettendo in campo tutte le risorse della mobilitazione e twittando freneticamente il suo appoggio ad un “regime change” che fortunatamente ha fatto cilecca. Come l’ossessione nord coreana, l’ossessione iraniana della presidenza Trump è destinata infatti ad alimentare le stesse tensioni e le stesse delusioni. Gli Iraniani non hanno nessuna intenzione di sbudellarsi tra loro per far piacere all’inquilino della Casa Bianca. Quanto ai Nord Coreani, hanno già fatto abbastanza progressi nel campo nucleare, da potere esporre Washington e i suoi alleati a terrificanti rappresaglie in caso di aggressione. Siccome Trump non è né pazzo né scemo, si può ragionevolmente pensare che le sue invettive contro Pyongyang siano destinate a restare nel campo irrisorio del “flatum vocis”( espressione che potrebbe tradursi “scorreggia verbale”) piuttosto – meno male – di trasformarsi in fungo atomico.
Si renderebbe molto onore al personaggio, in definitiva, a considerarlo responsabile di un declino di cui è solo il sintomo. La sua enfasi retorica e la sua propensione alla farsa sono degli effetti, le cui cause stanno altrove. E la cosa condanna l’inquilino della Casa Bianca ad una politica raffazzonata che non ha nulla a che vedere con la sua personale equazione. E’ un mondo che si sovverte e Trump (non più di Hillary Clinton al posto suo) non può farci niente. Il problema dell’attuale presidente, al contrario, è che ha promesso qualcosa che è incapace di offrire: una cura miracolosa che protegga gli USA da un declino irreversibile. Il paradosso è che se la prende con una mondializzazione che rovina “l’America” applicando le stesse regole che hanno fatto la sua fortuna per mezzo secolo. Può ben moltiplicare le operazioni di diversione, demonizzare i capri espiatori (Putin, Assad, i democratici, la stampa, gli immigrati), si accontenta in realtà di verbalizzare la sua impotenza. Se Trump abbaia ma non morde, se preferisce imprecare piuttosto che agire, è perché non si può permettere di fare come vorrebbe. Come ogni altro presidente degli Stati Uniti, è coinvolto in un sistema che reclama tassi di profitto e crediti militari, e sarà giudicato in base alla sua capacità di assicurarli.