Trump, ovvero la sindrome della zappa sui piedi
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Oumma, 1 luglio 2018 (trad. ossin)
Trump, ovvero la sindrome della zappa sui piedi
Bruno Guigue
Gli Stati Uniti che gettano il « multilateralismo » alle ortiche, il ritiro statunitense dall’accordo sul nucleare iraniano, la guerra commerciale che si profila all’orizzonte, il G7 che degenera in pollaio, l’Unione Europea ridotta all’impotenza: quel che, a uno sguardo superficiale, può sembrare una serie di mini-crisi è invece rivelatrice di tendenze profonde. E’ come un accavallarsi di segni clinici. C’è quello che si vede a occhio nudo – semplici vicissitudini, si direbbe - e poi, sotto questa apparenza, come una disintegrazione sotterranea delle strutture.
Il presidente USA, Donald Trump
Per abbozzare il ritratto di un mondo occidentale alla deriva, bisogna naturalmente partire da un’analisi di ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Prima di tutto perché il pesce comincia sempre a marcire dalla testa, e poi perché Trump contribuisce a questo imputridimento proprio coi suoi tentativi di scongiurarlo. Essendo il sistema politico statunitense quello che è, anche la nuova amministrazione condivide infatti gli stessi obiettivi delle precedenti. Erede di un impero smisurato, si sforza di mantenerne l’egemonia praticando la negazione della realtà.
Il suo primo cavallo di battaglia, quello su cui Trump si gioca la credibilità, è la lotta contro il declino industriale. Trump deve infatti il suo successo elettorale dell’8 novembre 2016 al consenso degli operai rovinati dal libero scambio. La guerra commerciale avviata con la Cina, l’UE e il Canada non è una moda passeggera, essa realizza una delle promesse della campagna elettorale. Gli USA sono il primo importatore mondiale, e il loro deficit con la Cina ha superato nel 2017 i 345 miliardi di dollari. Occorre quindi porre un freno al progressivo collasso delle capacità produttive statunitensi.
Ma per riuscirci, l’amministrazione Trump si trova di fronte ad una scelta di metodo. Gli USA hanno goduto di una prosperità senza precedenti scommettendo su una mondializzazione che arrecava loro benefici. Questo regno delle multinazionali è tutt’altro che compiuto, ma esse producono sempre meno sul suolo statunitense. Per conservare la sua posizione dominante, il capitalismo USA, in realtà, ha sacrificato la propria classe operaia. Sostituita da cinesi o da robot, essa va a ingrossare le schiere di miserabili che si accampano nei sobborghi delle grandi città.
All’altro capo della scala sociale, al contrario, tutto va per il meglio. Mentre i poveri sono sempre più numerosi, i ricchi diventano sempre più ricchi. Contrariamente ai posti di lavoro, che vengono delocalizzati, i profitti realizzati all’estero vengono rimpatriati. Aggravata dalla finanziarizzazione sfrenata, questa divaricazione tra ricchezza e occupazione sta distruggendo il consenso sociale statunitense. L’intelligenza di Trump sta nell’averlo compreso e di averne fatto un argomento della campagna elettorale. Il limite di questa intelligenza, è che non è capace di risolvere il problema.
Quando le regole del gioco si rivelano sfavorevoli a chi le ha inventate, c’è la tentazione di volerle cambiare. Ed è esattamente quello che fa Trump. Col libero commercio che dispensa disoccupazione agli operai della « Rust Belt », vuole introdurre protezioni che ignorino gli accordi commerciali internazionali. Questo approccio rappresenta la quadratura del cerchio per un paese come gli Stati Uniti. Avendo globalizzato la sua economia su pressione delle multinazionali, qualsiasi ritorno al passato costerà loro caro. Detta chiaramente, il protezionismo è un’arma a doppio taglio, come hanno dimostrato le reazioni cinesi, europee e canadesi.
Supponendo che abbia luogo – cosa per nulla sicura – la guerra commerciale sarà, nel peggiore dei casi, un disastro e, nel migliore, un gioco a somma zero. Trump lo sa, ed è per questo che la sua politica neo-imperiale si accontenterà sicuramente in questo campo di proclamazioni inoffensive. Non ha alcuna intenzione di passare alla posterità come colui che ha distrutto le fondamenta della potenza statunitense, preferisce molto di più aprire altri fronti dove pensa di poter avere la meglio. E l’incoerenza – o l’imprevedibilità – che gli viene spesso qui attribuita è probabilmente solo apparente.
L’esempio più pertinente è quello della sua politica in materia nucleare. Il diverso atteggiamento riservato all’Iran e alla Corea del Nord dimostra che Trump non attribuisce alcuna importanza al nucleare. Prima di tutto perché la nuclearizzazione della Corea del Nord è un fatto compiuto – e irreversibile – e non si può ottenere altro da questo paese – dal punto di vista statunitense – che una distensione diplomatica destinata a rassicurare Seul con l’obiettivo di alleggerire il carico dell’ombrello protettivo USA. Poi perché l’Iran, al contrario, sebbene non disponga di alcuna arma nucleare, è un nemico sistemico degli Stati Uniti che bisogna dunque indebolire con ogni mezzo.
Dalla Siria allo Yemen, passando per l’Iraq, il Libano e la Palestina, Teheran è una colossale spina nel fianco di Washington. Capofila dell’asse della resistenza, è la bestia nera di Israele, Stato-colono espansionista cui Trump si è affrettato a dichiarare fedeltà, in cambio della neutralizzazione della lobbie filo-israeliana durante la campagna presidenziale. Isolando l’Iran, Trump fa un doppio colpo: dà soddisfazione a Tel Aviv – e Riyad – contemporaneamente provocando quello strangolamento economico dal quale si attende un « regime change » per fame, in assenza di una rivolta armata pilotata dall’estero sul modello siriano.
Ma la partita non è vinta. Perché escludendo questo grande paese dai circuiti economici e finanziari occidentali, lo apre ad altre influenze. Non è un caso se l’Iran ha adesso aderito all’Organizzazione di cooperazione di Shangai al fianco della Russia, dell’India e della Cina. Questa organizzazione rappresenta oramai il 40 % della popolazione e il 25 % del PIL mondiale. Il ritiro statunitense dall’accordo del 2015 sul nucleare iraniano, inoltre, provoca una serie di danni collaterali. Provocherà l’allontanamento da questo paese di molte imprese europee, e soprattutto di Total, prima capitalizzazione borsistica del CAC40.
Impresa multinazionale il cui 30% del capitale è detenuto da azionisti statunitensi, Total doveva partecipare allo sfruttamento del giacimento di gas offshore « South Pars », il più grande al mondo, situato nel Golfo Persico e nelle acque territoriali iraniane. E’ finita. Il progetto passa in altre mani, ed è interessante vedere quali. Costretta al disimpegno da Washington, Total cederà il posto al gigante cinese degli idrocarburi CNPC, felicissimo di assicurarsi il boccone. Volendo punire Teheran, Trump ha fatto un regalo di pregio alla Cina, principale concorrente degli USA alla testa dell’economia mondiale e primo responsabile del deficit commerciale USA. E’ il colmo.
A sentir lui, Trump sogna di restaurare « la grandezza degli USA ». Ha portato il budget militare a vette ineguagliate (700 miliardi di dollari) e perseguito un confronto con la Russia che risponde all’unico interesse – di corto respiro – di staccare la Russia dai suoi partner europei, e questo spiega il ruolo attivo del Regno Unito, cecchino dell’impero USA, nella demonizzazione di Mosca. Non è un neoconservatore al modo di Bush, né interventista in salsa umanitaria come erano i democratici. Ma siccome si è fatto eleggere per scongiurare l’agonia del declino, alimenta il mito della rinascenza USA e crede basti schierare delle portaerei per dominare il mondo.
Fortunatamente, questa smisurata ambizione si scontra col principio di realtà su tutti i fronti. Il Medio Oriente è l’epicentro di uno scontro nel quale Mosca si è piazzata al centro del gioco, condannando Washington a fare da tappezzeria mentre i Russi guidano le danze. Complicata com’è, la politica USA in Siria è votata al fallimento. L’esercito siriano riconquista il territorio nazionale, e le ultime frange di miliziani lobotomizzati si preparano a rendere le armi. Mentre Mosca e Damasco celebreranno i 50 anni di un’alleanza oramai appoggiata al gigante cinese, il matrimonio di Washington con Riyad e Tel Aviv apparirà forse un giorno come un errore di casting.
In campo geopolitico, le apparenze ingannano. L’eccesso di potenza non si trasfonde necessariamente in intelligenza strategica. Gli USA spendono 2187 dollari annui per abitante per la loro difesa, contro i 154 dollari dei Cinesi. Non si nota la stessa proporzione nei risultati. Le minacce profferite simultaneamente contro Mosca e Pechino sono all’opposto della strategia – che ebbe successo all’epoca di Kissinger – imperniata sulla triangolazione della Russia e della Cina, per dividere le due potenze continentali. Trump, dal canto suo, sembra voler venire alle mani con tutti (Cina, Russia, Iran, Siria, Corea del Nord, Cuba, Venezuela) e – per fortuna – non affronta nessuno per davvero.
Gli Stati Uniti di Trump credono di poter praticare la politica di quello che toglie la scala dopo averla usata per salire in cima. Ma la realtà, è che non sono più davvero in cima. La politica neo-imperiale di Donald Trump arricchirà come non mai i mercanti di armi e i maganti della finanza. Il paradosso e che contribuirà in tal modo all’egemonia mondiale di coloro che , lontano dagli Stati Uniti, investono nelle infrastrutture e non nelle industrie di armamenti, e che combattono la povertà invece di alimentarla. Inutile precisare chi detiene le chiavi del futuro. La politica di Trump, per gli Stati Uniti, è la sindrome della zappa sui piedi.