Obama delude
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Quattro Nobel non meritati
La vera democrazia soddisfa i bisogni della popolazione, mentre gli Stati Uniti sono preoccupati soprattutto di creare le condizioni favorevoli per i loro investimenti.
Internazionale , 7 gennaio 2010
Barack Obama, il quarto presidente statunitense a vincere il premio Nobel per la pace, continua come i suoi predecessori a promuovere la convivenza pacifica. A patto che non danneggi gli interessi degli Stati Uniti. Tutti e quattro questi presidenti hanno lasciato la loro impronta sull’America Latina. Visto l’atteggiamento dell’amministrazione Obama nei confronti delle elezioni in Honduras del novembre 2009, forse vale la pena di ricordare alcuni fatti.
Theodore Roosevelt. Durante il suo secondo mandato presidenziale (1904-1908) Roosevelt dichiarò: “Negli ultimi quattro secoli, l’espansione dei popoli di razza bianca, o europea, ha recato beneficio alla maggior parte delle popolazioni che abitavano le terre in cui quest’espansione è avvenuta”. Era perciò “inevitabile per il bene dell’umanità nel suo complesso che il popolo statunitense estromettesse i messicani” conquistando metà del Messico ed era “fuori questione aspettarsi che i texani si sottomettessero al dominio di una razza più debole”. Naturalmente, anche l’uso della diplomazia delle cannoniere per sottrarre Panama alla Colombia e costruire il canale fu un dono all’umanità.
Woodrow Wilson. Wilson è il più rispettato dei presidenti che hanno ricevuto il Nobel per la pace e forse è quello che ha danneggiato di più l’America Latina. L’invasione di Haiti nel 1915 provocò la morte di migliaia di persone e lasciò il paese in rovina. Per dimostrare il suo amore per la democrazia, Wilson ordinò ai marines di sciogliere il parlamento haitiano perché non aveva approvato la legislazione che avrebbe permesso alle aziende americane di comprarsi tutto il paese. Wilson invase anche la Repubblica Dominicana “per garantire la sua sicurezza”. Entrambi i paesi rimasero per decenni sotto feroci dittature, eredità dell’“idealismo wilsoniano”, uno dei princìpi fondamentali della politica estera statunitense.
Jimmy Carter. Per il presidente Carter (1977-1981), i diritti umani erano “l’anima della nostra politica estera”. Robert Pastor, il suo consulente per la sicurezza nazionale in America Latina, spiegò l’importante distinzione tra difesa dei diritti umani e politica reale: purtroppo l’amministrazione aveva dovuto appoggiare il regime del dittatore Anastasio Somoza in Nicaragua e aveva finanziato la sua guardia nazionale addestrata dagli Stati Uniti, anche dopo che aveva massacrato 40mila persone “con una brutalità che di solito un paese riserva ai suoi nemici”. Per Pastor, “gli Stati Uniti non volevano controllare il Nicaragua, ma non volevano neanche che la situazione sfuggisse al loro controllo. Volevano che i nicaraguensi agissero in piena autonomia tranne quando questo danneggiava gli interessi americani”.
Barack Obama. Il presidente ha allontanato gli Stati Uniti da quasi tutta l’America Latina e dall’Europa riconoscendo il colpo di stato militare che l’estate scorsa ha rovesciato il governo democratico dell’Honduras. “Quel golpe rifletteva enormi divisioni politiche e socioeconomiche”, ha scritto il New York Times. Il presidente Manuel Zelaya stava diventando una minaccia per quella che la “piccola borghesia” chiamava la “democrazia”, cioè il predominio delle “imprese e delle forze politiche più potenti del paese”. Zelaya stava proponendo misure pericolose come l’aumento dei salari in un paese in cui il 60 per cento della popolazione vive in povertà. Doveva andarsene.
A novembre solo gli Stati Uniti e pochi altri hanno riconosciuto le elezioni vinte da Pepe Lobo e gestite dai militari: “Un grande trionfo della democrazia”, secondo l’ambasciatore di Obama Hugo Llorens. Così Washington ha potuto mantenere l’uso della base aerea di Palmerola, particolarmente preziosa da quando i militari americani sono stati costretti a ritirarsi da quasi tutta l’America Latina. Dopo le elezioni, Lewis Anselem, rappresentante di Obama all’Organizzazione degli stati americani, ha consigliato agli stati sudamericani di riconoscere il golpe “nel mondo reale, e non in quello del realismo magico”.
Dati gli stretti rapporti tra il Pentagono e l’esercito dell’Honduras, e l’enorme influenza economica che gli Stati Uniti hanno sul paese, sarebbe stato facile per Obama schierarsi con i paesi europei e latinoamericani a fianco della democrazia hondureña. Ma Obama ha preferito seguire la solita linea statunitense. Lo storico britannico Gordon Connell-Smith ha scritto una volta: “Anche se fingono di incoraggiare la democrazia in America Latina, gli Stati Uniti sono interessati al suo opposto”, fatta eccezione per la “democrazia procedurale, cioè le elezioni, che troppo spesso si sono rivelate una farsa”.
La vera democrazia soddisfa i bisogni della popolazione, mentre “gli Stati Uniti sono preoccupati soprattutto di creare le condizioni favorevoli per i loro investimenti”. Ci vuole una buona dose di “ignoranza intenzionale” per non accorgersene.
E questa cecità dev’essere preservata a tutti i costi se si vuole che le cose continuino così, sempre per il bene dell’umanità, come Obama ci ha ricordato nel suo discorso per il Nobel.
Internazionale , 14 ottobre 2009
Obama è gentile ma fa quello che vuole
Per il loro apparato militare, gli Stati Uniti spendono quasi quanto tutto il resto del mondo, e sul piano delle tecnologie di distruzione sono di gran lunga più avanti.
Il crollo dell’Unione Sovietica, simboleggiato dalla caduta del muro di Berlino, avrebbe generato – così si dice – un mondo unipolare, in cui gli Stati Uniti sarebbero ormai l’unica superpotenza globale. Nel giro di qualche mese l’amministrazione statunitense, guidata allora da George Bush padre, presentò il nuovo corso di Washington: tutto rimaneva come prima, ma con pretesti nuovi.
Come dire: abbiamo ancora bisogno di un colossale apparato militare, ma il motivo è che le potenze del terzo mondo sono ormai “tecnologicamente sofisticate”. E dobbiamo continuare a intervenire in Medio Oriente, regione ricca di petrolio e dove ci sono le minacce più significative agli interessi americani. Di tutto questo si è parlato poco, ma per chi spera di capire il mondo è una vicenda molto istruttiva.
Nel suo primo mandato l’amministrazione di George W. Bush è arrivata agli estremi del militarismo aggressivo e del disprezzo arrogante, e per questo è stata aspramente criticata. Poi, nel suo secondo mandato, Bush ha adottato una linea più moderata, estromettendo alcuni dei suoi collaboratori più estremisti (Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Douglas Feith e altri). E così la politica della Casa Bianca ha cominciato a rientrare nella normalità.
Quando Barack Obama stava per entrare alla Casa Bianca, Condoleezza Rice ha previsto che il nuovo presidente avrebbe seguito la politica del secondo mandato di Bush. E infatti è andata più o meno così, a parte la retorica diversa con cui Obama sembra aver incantato buona parte del mondo. In difesa della scelta di dare a Obama il premio Nobel per la pace, si potrebbe dire che la totale inerzia del nuovo presidente lo rende moralmente più meritevole di altri premiati del passato, di cui non farò i nomi.
Ma una differenza fondamentale tra Bush e Obama c’è. La spiegò benissimo uno dei più ascoltati consiglieri dell’amministrazione Kennedy, in un’era completamente diversa: al culmine della crisi missilistica di Cuba. A quel tempo gli strateghi di Kennedy presero decisioni che esponevano la Gran Bretagna al rischio di annientamento, ma non informarono gli inglesi. Ed ecco come quel consigliere definì la special relationship, cioè il rapporto speciale tra Washington e Londra: “La Gran Bretagna è il nostro luogotenente… anche se il termine oggi in voga è ‘partner’”.
Ecco, Bush e i suoi hanno trattato gli altri paesi da “luogotenenti”. Obama ha adottato una linea diversa: saluta educatamente i leader e i popoli del mondo chiamandoli “partner” e continua a trattarli da “luogotenenti” solo in privato. I leader stranieri preferiscono questo modo di fare, e anche l’opinione pubblica a volte ne viene ipnotizzata. Ma è più saggio prestare attenzione ai fatti che alla retorica e alle belle maniere.
Il sistema mondiale di oggi è ancora unipolare sotto un unico profilo: sul terreno della forza. Per il loro apparato militare, gli Stati Uniti spendono quasi quanto tutto il resto del mondo, e sul piano delle tecnologie di distruzione sono di gran lunga più avanti. Inoltre sono l’unico paese che ha centinaia di basi militari sparse in tutto il mondo e che occupa due paesi nelle regioni decisive del pianeta, quelle che producono energia.
Alla vigilia del primo viaggio di Obama in Russia, a luglio, Michael McFaul, il suo assistente speciale per la sicurezza nazionale e gli affari russi ed eurasiatici, ha dichiarato che Washington non avrebbe fatto concessioni sul programma di difesa antimissile in Europa dell’est e sull’ingresso nella Nato di due vicini della Russia, Ucraina e Georgia. Due mosse che la Russia vedeva come gravi minacce alla propria sicurezza.
Qualche settimana fa l’amministrazione Obama ha invece annunciato un “adeguamento” del sistema antimissile statunitense in Europa orientale. L’annuncio ha suscitato vari commenti, ma nessuno ha sollevato la questione centrale. Quei sistemi sono infatti propagandati come una difesa contro un eventuale attacco da parte dell’Iran, ma non è vero: un attacco missilistico iraniano è probabile più o meno come la caduta di un asteroide sulla Terra.
Invece quei sistemi servono a impedire ogni reazione contro un eventuale attacco americano o israeliano all’Iran. Sono cioè un’arma d’attacco: un dato su cui tutti gli interessati sono d’accordo, ma che a quanto pare si preferisce lasciare in ombra. Il piano di Obama potrà anche sembrare meno provocatorio alla Russia, ma a parte le affermazioni retoriche, è del tutto irrilevante per la difesa dell’Europa, se non come reazione a un eventuale primo attacco americano o israeliano contro l’Iran.
Anche se è unipolare sul piano militare, su quello economico il mondo, a partire dagli anni settanta, è diventato “tripolare”: il peso economico degli altri due poli, l’Europa e il nordest asiatico, è ormai paragonabile a quello del Nordamerica. Insomma, la crescita delle economie asiatiche sta determinando una diversificazione sempre più netta dell’economia globale.
E un mondo che, malgrado le resistenze dell’unica superpotenza, diventasse davvero tripolare non soltanto sul piano economico ma anche su quello politico, segnerebbe un grande progresso della storia.