Perché i migranti lasciano il loro paese e che cosa occorre fare
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CounterPunch, 15 settembre 2015 (trad. ossin)
Perché i migranti lasciano il loro paese e che cosa occorre fare
Mike Whitney
I migranti abbandonano il Medio Oriente e l’Africa e vanno in Europa. Altri lasciano l’America centrale e il Messico verso gli Stati Uniti. Le crisi umanitarie sono alle porte degli Stati Uniti e dell’Europa. In Europa regna il panico a causa delle orde di stranieri che arrivano sul suo territorio. Nazioni Unite e volontari sono mobilitati. Alcuni governi europei mettono a disposizione servizi sociali, trasporti, alloggi e cibo. I pericoli che minacciano i migranti sono la deportazione e la carcerazione. I media dominanti si concentrano sui problemi immediati dei migranti, gli ostacoli che incontrano sul loro cammino, e le difficoltà dei governi a fronteggiare la situazione. E i migranti continuano ad arrivare.
A questo punto, penserete, sarebbe ragionevole cercare di porsi una serie di domande che aiutino a trovare una soluzione a questi problemi. Perché, per esempio, queste persone partono? Si potrebbero scoprirne le ragioni, cercare di porvi rimedio e porre fine al disastro. Fare ciò potrebbe chiarire che questa tormenta che colpisce l’Europa e gli Stati Uniti è un sintomo, e che i palliativi non bastano più. Le vittime già lo sanno, lo hanno imparato sulla loro pelle. Partono col solo obiettivo di sopravvivere; le loro vite sono in pericolo. Ecco la malattia che deve essere curata. Che cosa è che la provoca?
In quelle tre regioni, vivere nel pericolo è una storia spesso raccontata e cangiante, soprattutto quando si affronta la questione delle responsabilità. La storia però è semplice e bastano poche parole a raccontarla. Gli artisti ci riescono con parole ben scelte. L’ultimo premio Nobel per la letteratura, il romanziere portoghese José Saramago ne è un esempio.
Riferendosi all’Africa, sostiene che “gli spostamenti da sud a nord sono inevitabili. Né i muri o il filo spinato, né le deportazioni li fermeranno; verranno a milioni. L’Europa sarà invasa dagli affamati. Vengono a cercare quello che hanno loro rubato. Non ci sarà ritorno per loro perché lasciano dietro di sé secoli di carestia e inseguono l’odore del loro pane quotidiano. Si avvicina il momento della distribuzione. Le trombe hanno cominciato a suonare. L’odio è servito e noi abbiamo bisogno di politici che siano capaci di fronteggiare la situazione”.
Questa sintesi puntuale del colonialismo, del saccheggio e della disperazione riguarda l’Africa. Il giornalista messicano David Brooks, anch’egli con poche parole, racconta come i Medio-orientali emigrano.
Gli Stati Uniti, scrive nel quotidiano La Jornada, “sono stati i maggiori venditori di armi al mondo (…) Il 60% di quelle vendute dall’amministrazione Obama è andato ai loro clienti nel Golfo Persico e in Medio Oriente. Durante i primi cinque anni di Obama alla Casa Bianca, (gli Stati Uniti) hanno venduto armi e servizi militari per 64 miliardi di dollari, ¾ dei quali destinati all’Arabia Saudita. Altri 15 miliardi di armamenti dovranno essere ancora consegnati tra il 2014 e il 2015 (…) Nello stesso tempo, hanno sbloccato le vendite all’Egitto che erano state congelate. E in paesi come l’Iraq, la Siria e lo Yemen, si è detto che enormi quantità di armi inviate dagli Stati Uniti ai loro alleati sarebbero finite nelle mani di nemici come lo Stato Islamico. Mentre il mondo è scosso dalle immagini delle ondate di rifugiati che giungono in Europa, si perdono di vista la ragione che li spinge ad emigrare. E questa ragione sta nel fatto che alcuni paesi sono stati attaccati dagli Stati Uniti e dalle potenze europee e che sono vittime di interventi, invasioni e guerre civili, provocate dalla caduta di regimi che prima mantenevano la situazione sotto controllo. Per tutte queste ragioni, le armi usate nelle guerre civili e nei conflitti tra Stati sono per lo più prodotti made in USA”.
L’Africa ha conosciuto i frutti sanguinosi della conquista coloniale. Il Medio Oriente sperimenta la morte tra le bombe e il caos. I rifugiati dell’America Latina e dei Caraibi vanno negli Stati Uniti per sfuggire alle conseguenze dello sfruttamento delle risorse, della monopolizzazione delle terre, dello strapotere dei banchieri e dei privilegi accordati al commercio internazionale. IL processo si è sviluppato lungo secoli. Una voce poetica adesso silenziosa ha dato la parola ai migranti costretti a lasciare la loro America.
Nell’introduzione della sua opera magistrale, Le Vene aperte dell’America latina, Eduardo Galeano disse (nel 1973): “Questa parte del mondo (…) è stata precoce: si è specializzata nella perdita costante fin dai tempi remoti in cui gli Europei del Rinascimento si sono avventurati attraverso gli oceani e hanno piantato i loro denti nella gola della civiltà indios (…) Ma questa regione fa anche il lavoro sporco. Essa continua a vivere al servizio dei bisogni altrui (…) Più libertà viene accordata alle imprese, più prigioni bisogna costruire per contenere le persone che soffrono per la loro attività. I nostri sistemi inquisitori- torturatori non servono solo gli interessi dei mercati esteri dominanti; producono anche fiumi di profitti provenienti dai crediti esteri (…)”
Occorre aggiungere qualcosa per stabilire delle connessioni. Un giornalista argentino ha difeso recentemente l’idea che “dalle nostre parti, nei paesi dell’America, conosciamo bene le cause dell’emigrazione massiccia, perché per due secoli siamo stati i paesi di accoglienza delle migrazioni che hanno portato milioni di Europei nei nostri paesi, fuggendo dalla fame, dalle guerre e dalle persecuzioni politiche, fuggendo dalle crisi economiche periodiche e distruttrici del capitalismo”.
Alberto Rabilotta prosegue: “Durante il periodo coloniale, le potenze europee e gli Stati Uniti hanno provocato molti danni e distruzioni sociali nei paesi dell’America, soprattutto nelle società indigene (…) Queste politiche neocoloniali e imperialiste sono ancora all’origine delle piaghe (mai curate) dei nostri popoli (…) dalle Malvine a Puerto Rico (…). (Quello) che le élite mondiali si rifiutano di vedere è che le migrazioni dei rifugiati che giungono sulle coste europee o alla frontiera sud degli Stati Uniti proseguono e crescono. Ma proseguiranno fin quando non muteranno gli attuali orientamenti politici, economici e militari. Sono i conflitti armati e la povertà che fanno venire i rifugiati”.
Infatti le tre regioni sono vittime di un colonialismo intriso di imperialismo. Il risultato è una grande sofferenza causata da paesi già ricchi che si sono appropriati delle loro ricchezze, e dalla forza militare, reale o minacciata. Una vittima tardiva dell’imperialismo, il Medio Oriente, ricco di petrolio, è stato rapidamente riacciuffato, appena sono cominciate le guerre e i bombardamenti degli Stati Uniti. Alcuni Stati nazionali forti, che operavano a favore dei loro popoli, sono spariti. Nelle imprese degli imperialisti mai nessuna attenzione viene rivolta alle vittime. Dovendo affidare ai loro piedi la ricerca della sicurezza, questi vanno là dove le ricchezze dei loro paesi sono stoccati.
L’attività dell’imperialismo all’estero, e l’imperialismo stesso, sono quindi tra le prime cause del problema dei rifugiati. Per porre fine al disastro in corso, gli anticapitalisti dell’occidente hanno tutte le ragioni per fare causa comune con i rifugiasti vittime dell’imperialismo. In un primo momento potranno trovarsi su di un terreno conosciuto, dovendo reagire alla mobilitazione fascistoide delle canaglie che fanno il lavoro sporco affidato loro dai loro padroni. Ma ci sarà poi da farsi carico di una sfida: come unificare la lotta popolare nei paesi ricchi con i movimenti di resistenza nei paesi stranieri. E’ necessario. Il primo passo per quelli che lottano in Europa e negli Stati Uniti è quello della serietà e di abbandonare divisioni e recriminazioni per unirsi. Il cemento sarà dato dalla lotta anticapitalista in nome dell’alternativa socialista al capitalismo dovunque.