Napoli come Saigon
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Intervento, novembre 2017 - Non sempre l’agonia porta a una rapida morte delle politiche obsolete e fallimentari. Talvolta dura all’infinito, ma è difficilissimo poter fare qualcosa per evitarlo, e si finisce col non averne nemmeno voglia. Ed è fortissima la tentazione di starsene fermi a guardare come va a finire...
Corriere del Mezzogiorno (Editoriale), 21 novembre 2017
Napoli come Saigon
Nicola Quatrano
La sensazione di questi giorni deve essere la stessa che provò il fotografo dell’Associated Press, Malcolm Browne, quando a Saigon (oggi Ho Chi Minh City), nel 1963, fotografò il monaco buddista Thích Quang Duc che si dava fuoco per protestare contro la dittatura filo-Usa di Ngô Dình Diem. Forse avrebbe anche potuto fare qualcosa per impedirne la morte, ma nemmeno tentò, lasciando che le cose andassero come dovevano andare. Restò lì ad osservare le fiamme che divoravano il corpo dell’uomo, muovendo un dito solo per scattare quelle foto che gli avrebbero guadagnato il premio Pulitzer. Perché, alla fine, certe cose non si possono evitare, si possono solo guardare.
E qualcosa del genere si finisce col provare di fronte all’agonia del Pd napoletano, al congresso «a rate», ai ricorsi in tribunale, alle delegittimazioni reciproche. Da anni il partito democratico napoletano non riesce a organizzare «primarie» decenti, e il congresso di adesso viene addirittura bollato – non da un osservatore critico, ma dallo stesso presidente Matteo Orfini – come una «scarsamente partecipata iniziativa di corrente». E che cosa si può fare? Probabilmente niente, qualsiasi intervento (ammesso sia possibile) sarebbe solo inutile accanimento terapeutico.
Analoghi sentimenti suscita lo spettacolo dell’agonia dell’amministrazione comunale. Il fallimento di un’esperienza che aveva sfidato (a parole) tutto il mondo, pretendendo di impersonale il Bene contro il Male. Fa addirittura tristezza vedere oggi il sindaco Luigi de Magistris, con toni dimessi, oseremmo dire «col capo chino ed il cappello in mano», chiedere udienza a chiunque (dal presidente del Consiglio a quello della Repubblica), implorandoli di fare qualcosa, almeno loro, per salvarlo dal fallimento contabile e politico della sua giunta. E intanto la città dei Beni Comuni si trova oramai costretta a privatizzare perfino il servizio di trasporto pubblico.
E cosa dire ancora della sinistra-sinistra, che non prova nemmeno più a parlare di programmi, tanto è impegnata a decidere se presentarsi alle elezioni con una sola lista o con due (o tre, o quattro o cinque), per contendersi il 4-5% dell’elettorato?
Tra manovre e manovrine, risse da bar che non risparmiano nemmeno il pianista, si consuma intanto la definitiva scissione di questo ceto politico dalla realtà. Un realtà i cui contorni nemmeno forse sospetta, e che è di una crudezza drammatica.
Per conoscerla, è utile andarsi a leggersi il Dossier regionale 2017 sulla povertà, che la Caritas ha presentato nei giorni scorsi a Pozzuoli. Scopriamo allora, per esempio, che i due terzi dei poveri sono italiani e non immigrati. E che dunque non è una povertà importata, ma strutturale, e legata proprio alle politiche dei nostri governi e delle nostre amministrazioni. Si scopre che i nuovi poveri vengono spesso dal ceto medio (vi sono perfino laureati) e devono la loro povertà, più che ad assoluta mancanza di lavoro, alla precarietà. Un dato, questo, confermato dall’ultimo report di Bankitalia, secondo il quale, nel 2016, il contratto di quasi due milioni di lavoratori a termine ha avuto una durata di meno di un anno, addirittura inferiore ai tre mesi per circa mezzo milione. Una povertà legata al costo dei servizi (il 31,9% si rivolge ai centri di assistenza per il pagamento delle bollette), o alla loro mancanza (la percentuale di persone con disabilità che chiede aiuto è tripla rispetto alla media nazionale). In Campania, dice il rapporto, le persone a rischio di povertà sono il 39,1%, due terzi delle famiglie che chiedono aiuto hanno un reddito inferiore a 500 euro al mese, l’emigrazione resta, soprattutto per i giovani, una drammatica necessità, e fare un figlio è un lusso per pochi (il tasso di natalità è sceso nella regione dall’11,4% del 2002 all’attuale 8,6%). Si conferma, infine, il dato allarmante delle nuove povertà, quella dei padri separati, per esempio, che perdono la casa e non sono in grado di sopravvivere una volta pagato l’assegno alimentare.
È con queste cifre che i futuri candidati dovrebbero misurarsi, domandarsi che fare, proporre ricette. Solo così potrebbero evitare che le loro parole cadano, come oggi succede, nel più assoluto vuoto di interesse. Molti anni fa, un collaboratore di giustizia mi spiegò il suo timore di essere eliminato dagli avversari usando un’espressione efficacissima: «Mi sento – disse - già supierchie mmiez’a via». Ecco! Tutte queste persone che tanto si agitano, in uno spazio che è inesorabilmente diventato altro e diverso dalla realtà, sono oramai «supierchie», non hanno più niente da dire al loro «popolo», e magari nemmeno se ne rendono conto.
Non sempre l’agonia porta a una rapida morte delle politiche obsolete e fallimentari. Talvolta dura all’infinito, e questo è un danno incalcolabile per tutti. Ma è difficilissimo poter fare qualcosa per evitarlo, e si finisce col non averne nemmeno voglia. Ed è fortissima la tentazione di starsene fermi a guardare come va a finire.