Le verità scomode sulle migrazioni
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Analisi, 18 gennaio 2018 - La teoria economica standard afferma che l’immigrazione, come il libero scambio, dopo un certo tempo avvantaggia la popolazione autoctona. Ma le ricerche recenti hanno seriamente messo in discussione questa argomentazione (nella foto, celebrazione dell'Aid a Milano)
Project Syndicate, 18 gennaio 2018 (trad.ossin)
Le verità scomode sulle migrazioni
Robert Skidelsky
La teoria economica standard afferma che l’immigrazione, come il libero scambio, dopo un certo tempo avvantaggia la popolazione autoctona. Ma le ricerche recenti hanno seriamente messo in discussione questa argomentazione, mentre le conseguenze sociali e politiche dell’apertura delle frontiere consigliano di porre limiti alla immigrazione
La sociologia, l’antropologia e la storia hanno consentito di fare grandi progressi nel dibattito sulla immigrazione. Sembra che l’Homo oeconomicus, che vive solo per il pane, abbia ceduto il posto a qualcuno per il quale il senso di appartenenza ha un’importanza almeno equivalente al mangiare.
Questo mette in crisi la convinzione che l’ostilità all’immigrazione di massa abbia solo motivazioni di protesta contro la disoccupazione che essa induce, l’abbassamento dei salari e la crescente diseguaglianza. L’economia ha certamente giocato un ruolo nella recrudescenza delle politiche identitarie, ma la crisi dell’identità non sarà cancellata solo dalle riforme economiche. Il benessere economico non è la stessa cosa del benessere sociale.
Cominciamo però dall’economia, usando il Regno Unito – che adesso esce dalla UE – come esempio. Tra il 1991 e il 2013, vi è stato un afflusso netto di 4,9 milioni di immigrati nati all’estero in Gran Bretagna.
La teoria economica standard ci dice che l’immigrazione, come il libero scambio, dopo un certo tempo avvantaggia la popolazione autoctona. Perché, se aumenti la mano d’opera, il prezzo del lavoro (salario) diminuisce. Ma questo accrescerà i profitti e l’aumento dei profitti porta a più investimenti, e questi infine accresceranno la domanda di mano d’opera, invertendo così l’iniziale processo di riduzione dei salari. L’immigrazione, in definitiva, permetterebbe ad una popolazione più grande di godere dello stesso livello di vita della più modesta quantità di popolazione precedente – un netto miglioramento del benessere totale.
Un recente studio di Robert Rowthorn, economista dell’Università di Cambridge, ha però dimostrato che questo ragionamento è pieno di buchi. I cosiddetti effetti temporanei nel rapporto tra più lavoratori migranti e salari più bassi possono durare cinque o sei anni, mentre gli effetti benefici presuppongono un’assenza di recessione. E, anche in assenza di recessione, se il flusso di migranti è continuo, cioè non produce un aumento una tantum delle dimensioni della forza lavoro, la domanda di lavoro può mantenersi costantemente inferiore alla crescita dell’offerta. « L’affermazione secondo cui gli immigrati tolgono lavoro ai lavoratori locali e fanno abbassare i loro salari, spiega Rowthorn, può essere esagerata, ma non è sempre falsa ».
Un secondo argomento economico è che l’immigrazione fa ringiovanire la forza lavoro e mette in sicurezza le finanze pubbliche, perché i giovani lavoratori immigrati pagheranno le tasse necessarie a mantenere un numero crescente di pensionati. Si prevede che la popolazione del Regno Unito supererà i 70 milioni prima della fine del prossimo decennio, con un aumento quindi di 3,6 milioni, pari al 5,5%, per merito dell’immigrazione netta e di un’eccedenza di nascite rispetto ai decessi tra i nuovi arrivati.
Rowthorn respinge questo argomento. « Il ringiovanimento attraverso l’immigrazione è un tapis roulant senza fine, dice. Mantenere una riduzione del tasso di dipendenza una volta per tutte, richiederebbe un flusso infinito di immigranti. Una volta che il flusso si interrompe, la struttura per età tornerà alla sua consistenza originaria ». Un afflusso inferiore e un’età di pensionamento più elevata sarebbero una soluzione molto migliore per l’invecchiamento della popolazione.
Pertanto, anche in condizioni ottimali come l’assenza di recessione, gli argomenti economici a favore dell’immigrazione su larga scala non sono affatto conclusivi. Dunque il nodo della questione è veramente il suo impatto sociale. Qui, il ben noto beneficio della diversità deve essere posto a confronto col rischio di perdita della coesione sociale.
David Goodhart, ex capo redattore della rivista Prospect, ha sostenuto la necessità di restrizioni in una prospettiva socialdemocratica. Goodhart non si pronuncia sulla questione se la diversità culturale sia intrinsecamente o moralmente buona o cattiva. Dà soltanto per scontato che la maggior parte delle persone preferisca vivere insieme ai loro simili, e pensa che i decisori politici debbano assecondare questa preferenza. Una politica di laissez-faire nei confronti della composizione della popolazione di un paese è insostenibile come l’indifferenza per le sue dimensioni.
Per Goodhart, alla radice dell’ostilità dei liberali nei confronti di un governo delle migrazioni, c’è la loro visione individualista della società. Non riuscendo a comprendere l’attaccamento della popolazione alle comunità stabilite, etichettano come irrazionale o razzista l’ostilità all’immigrazione.
L’eccessivo ottimismo liberale circa la facilità di integrazione dei migranti deriva dalla stessa fonte: se la società non è altro che un insieme di individui, l’integrazione non può essere un problema. Naturalmente, dice Goodhart, gli immigrati non devono abbandonare completamente le loro tradizioni, ma « esiste una cosa come la società » e se loro non fanno alcuno sforzo per uniformarsi, i cittadini autoctoni avranno difficoltà a considerarli come parte della « comunità immaginata ».
Un afflusso troppo rapido di immigrati indebolisce i legami di solidarietà e, nel lungo periodo, erode i legami affettivi necessari al mantenimento dello Stato sociale. « La gente favorirà sempre le proprie famiglie e comunità, afferma Goodhart, ed è compito di un liberalismo realista cercare di definire una comunità che sia abbastanza ampia da includere persone provenienti da contesti diversi, senza essere così ampia da perdere ogni significato ».
I liberali economici e politici sono compagni di strada nella difesa dell’immigrazione senza restrizioni. I liberali economici considerano le frontiere nazionali come un ostacolo irrazionale all’integrazione globale dei mercati. Molti liberali politici considerano gli Stati nazione, e le lealtà che essi ispirano, come ostacoli ad una più ampia integrazione dell’umanità. Entrambe fanno appello ad obblighi morali che si estendono ben oltre le frontiere culturali e fisiche delle nazioni.
In discussione è ciò che da più tempo viene dibattuto nell’ambito delle scienze sociali. Le comunità possono essere create dalla politica e dai mercati, o presuppongono un precedente senso di appartenenza?
Mi sembra che chiunque pensi a queste cose debba essere necessariamente d’accordo con Goodhart, che la cittadinanza, per la maggior parte delle persone, è qualcosa con la quale si nasce. I valori provengono da una storia e una geografia specifiche. Se la composizione di una società viene cambiata troppo rapidamente, si producono effetti disgregatori e si mette la gente alla deriva della propria storia, sradicandola. L’ansia dei liberali di non apparire razzisti impedisce loro di capire alcune verità. La conseguenza inevitabile è un’esplosione di quello che oggi viene chiamato populismo.
La conclusione politica da trarre è banale, ma vale la pena ripeterla. La tolleranza di un popolo verso il cambiamento e l’adattamento non deve oltrepassare certi limiti, anche se si tratta di fenomeni che interessano una pluralità di paesi. Nello specifico, l’immigrazione non dovrebbe essere spinta troppo oltre, perché sicuramente susciterà forte ostilità. I politici che non riescono a « controllare le frontiere » non meritano la fiducia del loro popolo.