Premio Nobel a Handke. Il coraggio dell'uomo, l'impegno dell'artista
- Dettagli
- Visite: 2627
Intervento, 20 ottobre 2019 - Un fulmine nel cielo sereno dei Nobel: dopo 20 anni di Purgatorio (da quando nel 1996 ha cominciato a prendere le difese della Serbia contro la «comunità internazionale»), Peter Handke accede al Paradiso del Nobel (nella foto, Peter Handke)
Le Grand Soir, 14 ottobre 2019 (trad.ossin)
Premio Nobel a Handke. Il coraggio dell’uomo, l’impegno dell’artista
Rosa Llorens
Un fulmine nel cielo sereno dei Nobel: dopo 20 anni di Purgatorio (da quando nel 1996 ha cominciato a prendere le difese della Serbia contro la «comunità internazionale»), Peter Handke accede al Paradiso del Nobel ! Gli odi che ha suscitato non disarmano, ma almeno questo riconoscimento ufficiale è un’occasione per ri-parlare della guerra mediatica scatenata, in forme criminali tanto quanto quella delle bombe, contro la Jugoslavia, e di misurare la grandezza dello scrittore
Giornali e riviste, letterarie e non, ci informano delle reazioni indignate di Croati e Albanesi: Actualitté ci informa che il Primo Ministro albanese, Edi Rama, ha reagito con un tweet: «Non avrei mai pensato che un Premio Nobel potesse farmi vomitare». Vomitò quando apprese che l’UCK, l’esercito degli Albanesi del Kosovo, era dedito ad un lucroso traffico di organi prelevati ai prigionieri serbi (Sul Kosovo, vedi, di Pierre Péan, Une guerre «juste» pour un Etat mafieux)? E comunque, già nel 2010, bisognava avere uno stomaco di ferro, quando si è avuta la notizia del conferimento del Nobel a Mario Vargas Llosa, ex-candidato liberale (vale a dire seguace dei criminali «Chicago boys») alla presidenza del Perù.
Courrier International, coraggiosamente, si nasconde, per insultare Handke, dietro The Guardian: «Il drammaturgo austriaco, le cui origini slovene gli avevano ispirato un fervente nazionalismo durante la guerra dei Balcani, aveva pubblicamente ipotizzato che i musulmani di Sarajevo si fossero massacrati da se stessi» - affermazioni tutte di parte, inesatte, addirittura grottesche: come avrebbero fatto le sue origini slovene a ispirargli un nazionalismo filo-serbo? Sui due massacri di Sarajevo, vedere la pagina di Wikipedia: risulta che non si è mai stabilito con certezza da che parte, bosniaca o serba, provenissero le granate.
Elisabeth Philippe, sull’Obs, definisce «parole molto ferme» le ingiurie di Jonathan Littell del 2008: Hanke? «uno stronzo». Che geniale analisi letteraria o storica!
I media hanno sperimentato, in occasione delle guerre contro la Jugoslavia, le stesse offensive che avrebbero poi lanciato contro l’Iraq, la Libia, la Siria, per preparare le aggressioni militari; la differenza è che, nel caso della Jugoslavia, non è stato solo un leader ad essere demonizzato, «hitlerizzato», ma un intero popolo, il popolo serbo, accusato di espansionismo, di nazionalismo fanatico congenito e, quando cercava di difendersi con riferimenti alla Storia, di «paranoia». E va bene, così sia, buttiamoci in paranoia e citiamo un paragrafo di Wikipedia sulla Serbia durante la Seconda Guerra mondiale, quando i Croati, provvisti dai Nazisti di un governo autonomo, sono stati governati dagli Ustascia collaborazionisti: «Praticando volentieri gli omicidi all’arma bianca e gli sgozzamenti, gli Ustascia si distinguono per la loro crudeltà, mutilando le loro vittime, cui strappano il fegato o il cuore, o ammazzando bambini piccolissimi e costringendo i genitori a seppellirli, prima di ammazzare anche loro; bruciando i cadaveri dei Serbi nei forni crematori – dove dei bambini sono talvolta gettati ancora vivi – o lanciandoli negli affluenti del Danubio affinché giungano fino a Belgrado, portando «parole di saluto» ai Serbi della capitale». La brutalità degli Ustascia finì per essere considerata controproducente dai loro alleati nazisti e fascisti: «Gli Italiani arrivano al punto di opporsi attivamente ai loro «alleati» croati, disarmando alcune milizie e proteggendo le popolazioni civili contro di loro».
Il bilancio delle vittime serbe in territorio croato è stimato in 300 000 su di una popolazione di 1,9 milioni.
Ma torniamo all’aspetto letterario dell’evento. Handke, come Günter Grass (altro Premio Nobel), aveva cominciato una brillante carriera seguendo le mode letterarie del tempo (soprattutto, per il secondo, il realismo magico). E’ stato più tardi che ognuno dei due ha trovato la sua strada, con formule letterarie originali (in “E’ una lunga storia” del 1995, il primo, e in “Viaggio invernale verso il Danubio, il Sava, il Morava e il Drina” del 1996, il secondo), e contemporaneamente ancorando la loro opera nell’attualità bruciante (il saccheggio della RDT da parte della Germania ovest, per l’uno; le guerre (mediatiche oltre che militari) contro la Jugoslavia ridotta alla sola Serbia, per l’altro). E, ovviamente, è stato quando sono diventati scrittori immensi che hanno cominciato ad essere contestati e perfino ingiuriati.
I due scrittori hanno ancora una cosa in comune: sono nati entrambi in una regione periferica dei loro rispettivi paesi: Danzica, oggi polacca (Gdansk), Grass, la Carinzia, regione crocevia tra Italia, Austria e Jugoslavia (oggi Slovenia), Handke. Si può vedere là l’origine di una particolare insofferenza per la «verità ufficiale», e della loro capacità di guardare la stessa situazione sotto diversi angoli visuali. E’ stata proprio la nausea nei confronti dell’ampiezza e l’unilateralità del linciaggio mediatico della Serbia che ha spinto Handke, come Régis Debray, a cercare di farsi un’idea propria sulla situazione, senza fermarsi alla «verità» strombazzata da tutti i media.
Debray è andato a in Kosovo per cercare di capire, e ne è venuta fuori una Lettere di un viaggiatore al Presidente della Repubblica, o Impressioni sulla Jugoslavia: come si capisce dal secondo titolo, non si trattava di contrapporre una verità a un’altra verità, ma semplicemente di attirare l’attenzione sulla massa di stereotipi che venivano contrabbandati come realtà dei fatti; votandosi in tal modo agli insulti dal momento che, al posto del Terrore che tutti dicevano Milosevic avesse imposto ai suoi concittadini, raccontava di aver veduto solo gente pacificamente seduta nelle terrazze dei caffè.
Anche Emir Kusturica è stato criticato perché, in modi esuberanti, dà nei suoi film una visione complessa delle guerre jugoslave, dove ogni popolo massacra i suoi vicini diventati nemici (dopo 50 anni di coesistenza pacifica in tutti i villaggi, tutte le città, tutti i palazzi, da una porta all’altra sullo stesso pianerottolo) invece di denunciare un solo colpevole e attribuire a tutti gli altri il ruolo di vittime.
Anche Handke ha cercato, per sfuggire agli stereotipi, forme nuove; e si capisce che, per limitarsi a scrivere «J’accuse» questo o quello, Zola doveva avere dietro di sé buona parte dei media, dei partiti e dell’opinione pubblica.
Per Handke, che doveva affrontare quel che viene chiamata «la comunità internazionale» (vale a dire i media delle principali potenze occidentali), il compito era oltremodo più difficile. Evita di «denunciare» (anche se qualche volta prevale l’indignazione, contro alcuni giornali come Le Nouvel Observateur, o Libération, oppure contro certi uomini politici come Javier Solana, all’epoca segretario generale della NATO), di parlare di «diritto», o semplicemente di affermare. Inventa una nuova forma letteraria, il saggio-reportage, nel quale procede per tratti, dove gira attorno al tema (di qui il titolo di “Attorno al Gran Tribunale”), dove pone delle domande, mettendo insieme piccole annotazioni precise, le «cose viste».
Quindi non denuncia l’illegittimità del TPI (la Corte Penale Internazionale, che è solo il braccio giudiziario dei vincitori per completare l’opera contro gli sconfitti); racconta come scopre, sul posto, la prigione dove è rinchiuso Milosevic: «La prigione reale di Scheveningen si trova sulla strada della stazione di pompaggio. Essa prosegue poi fino alle dune [...]. Anche molto da vicino, quando si è di fronte alla prigione, questa dava l’impressione di essere nascosta. Le mura di cinta erano costruite in piccoli mattoni, quasi delicati, simili a quelli della fila di casette di fronte e che, casa dopo casa, lo sottraevano allo sguardo. Lo sottraevano allo sguardo? Certo, ma non era così. Perché, come è d’uso in Olanda, non c’erano tende in queste case e quando vi si guardava dentro dalla finestra davanti, si poteva sia guardare il salotto interno che guardare all’esterno attraverso la finestra di dietro», l’esterno, cioè la prigione. Handke fa così una satira quasi ingenua della falsa trasparenza calvinista, che nasconde l’importante mostrando l’accessorio, mentre introduce il tema principale di “Attorno al Grande Tribunale”: la «tele-verità», quella verità che siamo convinti di possedere, mentre ne riceviamo solo dei riflessi attraverso uno schermo, senza averne alcuna esperienza diretta.
Lo stesso durante il processo Milosevic. Egli nota che lo sguardo viene invincibilmente attratto dall’onnipresente dispositivo di schermi che lo mette in scena, e che sarà ripreso a sua volta dallo schermo televisivo di ogni abitazione. E, anche qui, non denuncia la poca credibilità dei testimoni bosniaci o croati di massacri serbi (salvo a citare uno specifico caso di falsa testimonianza nel processo contro il Serbo Novislav Djacic, condannato da un Tribunale di Monaco per fatti accaduti molto lontano da là, sulla base di una semplice asserzione): osserva invece, sul posto, nel suo hotel, un testimone kosovaro, del quale in questo modo descrive l’accoglienza da parte di un gruppo di compatrioti, dopo la sua esibizione in Tribunale: «Al suo arrivo furono dapprima dei saluti; da ogni parte, braccia tese in avanti per stringere la mano; seguono risate di sollievo e discussioni animate, per ore – come dopo un esame superato? Sguardo luminosissimo del testimone, non avevo mai visto prima qualcuno scoprire tanto i denti sorridendo, nemmeno Fernandel».
O critica lo «stile» delle foto, patetiche, che mostrano i rifugiati «vittime» e quelle, molto più rare, di rifugiati serbi: «Perché questi Serbi non erano mai per così dire mostrati da vicino e quasi mai da soli, ma quasi unicamente in piccoli gruppi e quasi esclusivamente a una certa distanza o sullo sfondo, quasi sparendo alla vista, a differenza delle foto ritraenti Croati o Musulmani sofferenti, lo sguardo pieno e dolorante sulla macchina da presa, mentre i Serbi guardavano di lato o in basso, come coscienti di essere colpevoli? Come una tribù straniera? – o come se fossero troppo fieri per mettersi in posa? O troppo tristi per farlo?»
Il sottotitolo del Viaggio invernale era, nell’edizione tedesca, «Giustizia per la Serbia» (Handke lo ha soppresso nell’edizione francese perché «rendere giustizia scrivendone, è troppo evidente; si capisce da soli); potrebbe essere altrettanto bene «Giustizia per la realtà»; o «Giustizia per la scrittura»: in Handke, che combatte contro le chiacchiere mediatiche, «ogni paragrafo parla e tratta di un problema di rappresentazione, della forma, della grammatica, della verità estetica, e qui come sempre nei miei libri», si legge nella prefazione al Viaggio Invernale. Non si tratta solo dei Serbi, ma della possibilità per ognuno di avere accesso alla realtà, se non (ed è impossibile) in carne ed ossa, almeno attraverso un linguaggio lavorato per ridurre al minimo la sua inevitabile opacità. Per questo, il Premio Nobel conferito a Peter Handke è indiscutibilmente meritato.
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura |