Marx e il razzismo
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Analisi, 2 novembre 2020 - Tra le tante cose strane che mi capita di leggere qui e là negli ultimi tempi, c’è l’idea che chi lotta contro il razzismo non potrebbe definirsi marxista (a sinistra, Karl Marx)
Le Grand Soir, 14 giugno 2020 (trad.ossin)
Marx e il razzismo
Bruno Guigue
Tra le tante cose strane che mi capita di leggere qui e là negli ultimi tempi, c’è l’idea che chi lotta contro il razzismo non potrebbe definirsi marxista. Perché per Marx il capitale non aveva colori, perché difendeva la maggioranza e non le minoranze, e perché affermava la centralità della lotta di classe e non di quella delle razze, e altre simili amenità
E tuttavia Marx ha perfettamente colto il rapporto che corre tra discriminazione razziale e oppressione di classe, e ha scritto pagine illuminanti in proposito. Ha ad esso perfino dedicato un intero capitolo del “Capitale”, il capitolo 31 della parte ottava del Libro I, in cui descrive la derivazione del capitalismo moderno dal regime coloniale e dallo schiavismo delle piantagioni.
Ci limitiamo a qualche estratto:
«Le ricchezze estorte direttamente fuori dall’Europa dal lavoro forzato degli indigeni ridotti in schiavitù, dalle ruberie, i saccheggi e le stragi, defluivano verso la madre patria dove costituivano il capitale».
«La scoperta dei giacimenti d’oro e d’argento in America, la riduzione degli indigeni in schiavitù, la loro utilizzazione nelle miniere o il loro sterminio, l’avvio della conquista e del saccheggio nelle Indie, la trasformazione dell’Africa in un campo di caccia ai Neri, ecco le procedure idilliache dell’accumulazione originaria che contrassegnano l’era capitalista ai suoi albori».
«Il destino degli indigeni fu terribile nelle piantagioni destinate al solo commercio di esportazione, come le Indie occidentali, e nei paesi ricchi e popolosi, come le Indie orientali e il Messico, caduti nelle mani di avventurieri europei disposti a tutto».
La verità, come si vede, è che Marx ha compreso che il razzismo sistemico inerente allo schiavismo mercantile era l’atto di nascita del capitalismo moderno; che quest’ultimo avrebbe presto abbracciato la logica di quel che Samir Amin definirà lo «sviluppo ineguale»; che, una volta che si fossero istituzionalizzati i rapporti di dipendenza tra il Nord e il Sud, sarebbe stata questa ineguaglianza a costituire la vera struttura del sistema mondiale; che tra il centro e la periferia si sarebbe istituita una divisione del lavoro che avrebbe assegnato alla seconda il ruolo di fornitore di mano d’opera e di materie prima e prezzi bassi; che, generando uno sfruttamento a cascata, questa gerarchizzazione del mondo avrebbe perpetuato rapporti di sfruttamento dai quali l’Occidente capitalista avrebbe tratto la sua prosperità e le cui conseguenze sono ancora visibili.
Marx ha scritto anche molti articoli sul colonialismo britannico nelle Indie. In uno pubblicato dal New York Daily Tribune il 22 luglio 1853, sottolineava come la brutalità della borghesia europea potesse, nelle colonie, manifestarsi senza remore:
«La profonda ipocrisia e la barbarie intrinseca alla civiltà borghese si manifestano senza veli dinanzi ai nostri occhi, quando dalla loro patria naturale, dove assumono forme rispettabili, si passa alle colonie, dove si presentano nude e crude».
Lungi dall’essere indifferente alla questione razziale, Marx ne ha colto l’essenza, ha capito che essa era indissociabile dalla genesi del modo di produzione capitalista. Ci ha consegnato il ritratto di una dominazione senza precedenti che ha esteso a tutta la terra la legge ferrea del capitale, ricollegandola a pratiche ancestrali di una violenza inaudita. Frustato, mutilato o bruciato vivo al minimo tentativo di ribellione, lo schiavo nero delle colonie era la metafora di un mondo nel quale il razzismo di Stato giustificava ogni trasgressione. Rappresentava la punta estrema di un sistema di sfruttamento mondializzato che avrebbe presto trasformato i lavoratori, di ogni colore, in semplici merci finalizzate all’accumulazione del profitto.
«Mentre l’industria cotoniera introduceva in Inghilterra la schiavitù dei bambini, trasformava negli Stati Uniti il trattamento più o meno paternalista dei Neri in un sistema di sfruttamento mercantile. Insomma occorreva che la schiavitù dissimulata dei salariati in Europa poggiasse sul piedistallo della schiavitù senza perifrasi nel Nuovo Mondo».
Lo schiavismo razziale esisteva già, e Marx ne ha tenuto conto nella sua analisi dei rapporti sociali capitalisti. Non a caso ha citato la schiavitù delle piantagioni negli Stati Uniti. Sapeva che il razzismo in esse esistente costituiva uno dei fondamenti della sedicente democrazia statunitense. Ed è per questo che ha pubblicamente preso partito per l’Unione contro la Confederazione durante la Guerra di Secessione, e basta questo a sgombrare il campo da tutte le interpretazioni che vorrebbero sminuire l’importanza della questione razziale nel suo pensiero. Per Marx, che pure sapeva bene che Lincoln difendeva gli interessi della borghesia industriale del Nord, l’abolizione dello schiavismo razziale praticato nel Sud costituiva una priorità assoluta.
Quel che Marx dimostra brillantemente è che il Capitale ha istituito il razzismo sistemico fin dalla sua origine, che esso ne è un incontestabile elemento strutturale, e che è indipendente dai comportamenti individuali. Se Marx non parla della nostra epoca, ben descrive quella che l’ha preceduta e che la sottintende, tanto è vero – diceva – che «la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi».
Dimenticare questa lezione, significa dimenticare Marx.
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