Ucraina e Palestina: una doppia minaccia all’egemonia statunitense
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Analisi, 7 gennaio 2024 - L’esito dei conflitti a guida statunitense in Ucraina e nell’Asia occidentale avrà un profondo impatto sull’ordine mondiale che si va formando. Washington ha già perso il primo, e i suoi principali avversari devono fare in modo che perda anche il secondo (nella foto, il presidente Putin in visita negli EAU)
The Cradle, 2 gennaio 2024 (trad.ossin)
Ucraina e Palestina: una doppia minaccia all’egemonia statunitense
MK Bhadrakumar
L’esito dei conflitti a guida statunitense in Ucraina e nell’Asia occidentale avrà un profondo impatto sull’ordine mondiale che si va formando. Washington ha già perso il primo, e i suoi principali avversari devono fare in modo che perda anche il secondo
Gli analisti geopolitici concordano ampiamente sul fatto che la guerra in Ucraina e la crisi dell’Asia occidentale detteranno la traiettoria della politica mondiale nel 2024. Ma vi è anche una tesi minimalista che sottovaluta quanto il conflitto israelo-palestinese influirà sulla capacità di resilienza degli Stati Uniti per ciò che concerne la guerra per procura che sta conducendo in Ucraina – partendo dal presupposto che il fulcro della politica mondiale sia l’Eurasia.
La realtà è più complessa. Ciascuno di questi due conflitti ha una propria ragion d'essere e dinamiche proprie, ma allo stesso tempo sono anche intrecciati.
Il coinvolgimento fino al collo di Washington nell’attuale fase della crisi dell’Asia occidentale può trasformarsi in un pantano, poiché si tratta di una crisi che si intreccia con la politica interna come non è mai avvenuto per la guerra in Ucraina. D’altra parte, l’esito della guerra in Ucraina è già scontato, e gli Stati Uniti e i loro alleati hanno capito che la Russia non può essere sconfitta militarmente; tutto ciò che resta da fare è trovare un accordo per porre fine al conflitto alle condizioni della Russia.
Di certo, l’esito della guerra in Ucraina e la conclusione del conflitto israelo-palestinese, che è alla radice della crisi dell’Asia occidentale, avranno un profondo impatto sul nuovo ordine mondiale, e i due processi si influenzeranno a vicenda.
La Russia lo capisce pienamente. Le straordinarie "feste di fine anno" del presidente Vladimir Putin all’arrivo del nuovo anno parlano da sole: visite di un giorno ad Abu Dhabi e Riyadh (sotto gli occhi di un presidente USA Joe Biden, scioccato), seguite da colloqui con il presidente iraniano e un colloquio telefonico con il presidente egiziano.
Nel giro di circa 48 ore, Putin ha contattato i suoi colleghi emiratini, sauditi, iraniani ed egiziani che sono entrati ufficialmente nei BRICS il 1° gennaio.
L’evoluzione dell’intervento statunitense nella crisi dell’Asia occidentale può essere compresa da una prospettiva geopolitica solo tenendo conto dell’ostilità viscerale di Biden nei confronti della Russia. I BRICS sono nel mirino di Washington. Gli Stati Uniti comprendono perfettamente che la massiccia presenza di nazioni arabe e dell’Asia occidentale nei BRICS – quattro stati membri su dieci – è centrale nel grande progetto di Putin di ristrutturare l’ordine mondiale e seppellire l’eccezionalismo e l’egemonia degli Stati Uniti.
L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e l’Iran sono i principali paesi produttori di petrolio. La Russia è stata piuttosto esplicita nel dire che, durante la sua presidenza dei BRICS nel 2024, spingerà per la creazione di una valuta per sfidare il petrodollaro. Senza dubbio, la valuta dei BRICS sarà al centro del vertice del gruppo che sarà ospitato da Putin a Kazan, in Russia, ad ottobre.
In un discorso speciale del 1° gennaio, che segna l’inizio della presidenza russa dei BRICS, Putin ha dichiarato il suo impegno a “rafforzare il ruolo dei BRICS nel sistema monetario internazionale, espandendo sia la cooperazione interbancaria che l’uso delle valute nazionali nel commercio reciproco”.
Se si utilizzasse una valuta BRICS al posto del dollaro, ci potrebbe essere un impatto significativo su diversi settori finanziari dell’economia statunitense, come i mercati dell’energia e delle materie prime, il commercio e gli investimenti internazionali, i mercati dei capitali, la tecnologia e il fintech, i beni di consumo e la vendita al dettaglio, i viaggi. e turismo, e così via.
Il settore bancario potrebbe subire il primo colpo che potrebbe eventualmente riversarsi sui mercati. E se Washington non riuscisse a finanziare il suo gigantesco deficit, i prezzi di tutte le materie prime potrebbero salire alle stelle o addirittura raggiungere l’iperinflazione, innescando un crollo dell’economia statunitense.
Nel frattempo, lo scoppio del conflitto israelo-palestinese ha fornito agli Stati Uniti un alibi – “l’autodifesa di Israele” – per tentare di arrampicarsi nuovamente all’albero della cuccagna della politica dell’Asia occidentale. Washington ha molteplici preoccupazioni, ma al centro ci sono il duplice obiettivo di rilanciare gli accordi di Abraham (finalizzati ad una amicizia saudita-israeliana) e il simultaneo sabotaggio del riavvicinamento saudita-iraniano mediato da Pechino.
L’amministrazione Biden contava sul fatto che un accordo israelo-saudita avrebbe fornito legittimità a Tel Aviv e avrebbe reso chiaro al mondo islamico che non esiste alcuna giustificazione religiosa per l’ostilità nei confronti di Israele. Ma Washington ha la sensazione che dopo il 7 ottobre non sarebbe in grado di garantire un accordo tra Arabia Saudita e Israele durante il mandato di Biden, e tutto ciò che potrebbe essere ottenuto da Riad è una porta lasciata socchiusa per future discussioni sull’argomento. Senza dubbio si tratta di un duro colpo alla strategia statunitense volta a liquidare la questione palestinese.
In una prospettiva a medio termine, se il meccanismo russo-saudita noto come OPEC+ liberasse il mercato petrolifero mondiale dal controllo degli Stati Uniti, i BRICS pianteranno un pugnale nel cuore dell’egemonia statunitense che è ancorata al dollaro come “valuta mondiale”.
L’Arabia Saudita ha recentemente firmato un accordo di swap valutario del valore di 7 miliardi di dollari con la Cina nel tentativo di spostare una parte maggiore del suo commercio dal dollaro. La Banca popolare cinese ha affermato in una nota che l'accordo di swap “contribuirà a rafforzare la cooperazione finanziaria” e “faciliterà scambi e investimenti più convenienti” tra i paesi.
In futuro, le transazioni delicate tra Cina e Arabia Saudita in aree strategiche come la difesa e la tecnologia nucleare, tra le altre, si svolgeranno al di sotto del radar degli Stati Uniti. Dal punto di vista cinese, se il suo commercio strategico è sufficientemente protetto da qualsiasi programma di sanzioni anti-cinesi guidato dagli Stati Uniti, Pechino può posizionarsi con sicurezza per affrontare il potere statunitense nell’Indo-Pacifico. Questo è un esempio significativo di come la strategia statunitense per l’Indo-Pacifico perderà aderenza a causa del declino della sua influenza nell’Asia occidentale.
L’opinione diffusa è che la preoccupazione per l’instabile Asia occidentale distragga Washington dal prestare attenzione all’Indo-Pacifico e alla Cina. In realtà, però, il declino dell’influenza nell’Asia occidentale sta complicando la capacità degli Stati Uniti di contrastare la Cina sia nella regione che nell’Indo-Pacifico. Le cose si stanno muovendo in una direzione in cui le credenziali degli Stati Uniti come grande potenza sono a un punto di flessione nell’Asia occidentale – e tale consapevolezza si è diffusa in altre regioni geografiche del mondo.
Nel lontano 2007, gli illustri scienziati politici John Mearsheimer dell’Università di Chicago e Stephen Walt della John F. Kennedy School of Government di Harvard, scrissero con grande preveggenza nel loro famoso saggio di 34.000 parole intitolato The Israel Lobby and US Foreign Policy che Israele è diventato una “responsabilità strategica” per gli Stati Uniti, ma conserva il suo forte sostegno grazie ad una lobby ricca, ben organizzata e ammaliante, che tiene in pugno il Congresso e le élite statunitensi.
Gli autori hanno avvertito che Israele e la sua lobby hanno avuto un ruolo rilevantissimo nel persuadere l'amministrazione Bush a invadere l'Iraq e, forse in futuro, ad attaccare gli impianti nucleari dell'Iran.
È interessante notare che, alla vigilia di Capodanno, in un rapporto speciale basato su un ampio briefing da parte di alti funzionari statunitensi, il New York Times ha sottolineato che "Nessun altro episodio [come la guerra a Gaza] nell'ultimo mezzo secolo ha messo alla prova i legami tra gli Stati Uniti e Israele in un modo così intenso e consequenziale."
Chiaramente, anche se le azioni barbare di Israele a Gaza e il suo progetto coloniale nella Cisgiordania occupata vengono esposti e messi a nudo, e la campagna dello Stato israeliano per forzare la migrazione della popolazione palestinese sono sotto gli occhi di tutti, due degli obiettivi strategici degli Stati Uniti nella regione si stanno disfacendo. : in primo luogo, il ripristino della superiorità militare di Israele nell'equilibrio delle forze a livello regionale e nei confronti dell'Asse della Resistenza, in particolare; e in secondo luogo, la ripresa degli Accordi di Abramo in cui i gioielli della corona sarebbero stati un trattato israelo-saudita.
Viste da un altro punto di vista, le direzioni in cui si sviluppa la crisi dell'Asia occidentale sono attentamente osservate dalla comunità mondiale, in particolare da quella della regione Asia-Pacifico. La cosa più notevole qui è che Russia e Cina hanno dato mano libera agli Stati Uniti per gestire le loro mosse militari – finora incontrastate - nel Mar Rosso. Ciò significa che qualsiasi incendio nella regione sarà sinonimo di un catastrofico crollo della strategia statunitense.
Subito dopo la sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan in Asia centrale, e in concomitanza con la fine ignominiosa della guerra per procura guidata dagli Stati Uniti da parte della NATO contro la Russia in Eurasia, una battuta d’arresto violenta e grottesca nell’Asia occidentale invierà un messaggio sonoro a tutta l’Asia che il carrozzone guidato dagli Stati Uniti ha esaurito ogni forza. Tra i destinatari finali di questo messaggio sorprendente, i paesi dell’ASEAN sono in prima linea. La conclusione è che gli eventi tumultuosi che si sovrappongono in Eurasia e in Asia occidentale sono pronti a confluire in un momento culminante per la politica mondiale.
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